Un terremoto devastante e che non dà tregua: anche ieri in Emilia la terra ha tremato, rendendo più faticosa l’azione di quanti stanno lavorando per la ripresa. Malgrado i tanti servizi, interviste, analisi, gli interrogativi principali restano aperti e anche i ricercatori stanno approfondendo quanto è accaduto nel tentativo di rendere sempre più adeguate e possibilmente utili le loro indagini.



All’università Bicocca di Milano, Andrea Zanchi, ordinario presso il dipartimento di scienze geologiche e geotecnologie, sta seguendo con attenzione l’evolversi della situazione: ilsussidiario.net l’ha incontrato.

Professor Zanchi, che cosa conosciamo del sottosuolo di quella zona della Pianura Padana?

Direi che di quella zona abbiamo una conoscenza abbastanza buona perché è stata interessata da ricerche petrolifere che hanno permesso di raccogliere una certa quantità di dati: le strutture del sottosuolo sono ben descritte, ci sono diversi articoli scientifici specifici pubblicati negli ultimi anni che descrivono l’evoluzione di questo settore della Pianura Padana. Conoscere i particolari è più difficile, soprattutto in profondità; tuttavia, almeno per alcuni chilometri di profondità il sottosuolo è stato esplorato e c’è una discreta conoscenza indiretta. Tutti questi studi sono molto importanti perché consentono di riconoscere le strutture che hanno dato luogo ai terremoti, cioè quali faglie si sono mosse, quali sono responsabili di questi eventi.



E dopo un terremoto, cosa conosciamo di più, quali informazioni aggiuntive possiamo, tragicamente, raccogliere?

Possiamo conoscere quali faglie si attivano in una determinata zona e localizzarle con maggior precisione; possiamo inoltre descriverne meglio la geometria, la profondità, l’orientazione, il tipo di movimenti alle quali sono soggette e contribuire a migliorare le conoscenze sulla pericolosità sismica.

Possiamo quindi capire qualcosa di più anche delle cause scatenanti il sisma?

Questo è difficile. Purtroppo la scienza è ancora abbastanza impreparata a risolvere questo problema.



Si sente dire in questi giorni che il fenomeno sismico “si sta spostando verso Ovest”: che cosa significa?

Si è visto che nella prima fase i terremoti erano concentrati in un settore a Est; nel tempo si sono poi propagati in una zona un po’ più a Ovest, per un’estensione di qualche decina di chilometri. In effetti, lungo questo settore sono presenti terremoti un po’ dappertutto e la loro distribuzione coincide con l’orientazione delle strutture descritte in letteratura e conosciute già anche in passato: è un settore del fronte sepolto della catena, di quello che viene denominato l’arco delle pieghe ferraresi; è la porzione più esterna dell’Appennino Settentrionale. Il terremoto è confinato in quella porzione; non è che si sposti, è che le rotture si propagano progressivamente e si manifestano prima in un punto poi lateralmente ma restando entro un settore abbastanza circoscritto.

Come si fa a distinguere tra scosse di assestamento e nuovi fenomeni?

Ci sono scosse di intensità diversa e ubicate in punti diversi; ma è una distinzione piuttosto effimera. La gerarchia delle scosse è fatta in base alla loro intensità ma la classificazione di scosse premonitrici, scosse vere e proprie e poi scosse di assestamento è difficilmente applicabile alla descrizione del processo reale e a sciami di sismi così continui. Basti pensare a quanto è successo in Friuli nel 1976, dove ci sono state due scosse di intensità maggiore di 6 della scala Richter a distanza di mesi e anche la seconda è stata altamente distruttiva.  Erano scosse ben distinte, corrispondenti a rotture di segmenti differenti della stessa struttura o di strutture molto vicine tra loro.

Che cosa provoca quindi il ripetersi delle scosse?

È il fatto che l’energia del primo evento non si era liberata completamente e ciò porta all’attivarsi di altre porzione della faglia; la prima rottura è stata descritta dall’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) come se avesse provocato l’attivazione di un segmento di circa 10 km; poi a poco a poco si muovono altri settori della faglia, di dimensioni più limitate, o anche altre faglie vicine.

In sintesi, cosa sta succedendo nel sottosuolo padano? Possiamo dire che sta accadendo qualcosa di nuovo?

Direi proprio di no. La sismicità del fronte appenninico è ben conosciuta. Ci sono stati terremoti nel passato di intensità leggermente inferiore. Quello del 1570 a Ferrara è stato di poco inferiore a questo e altri eventi nell’arco appenninico hanno superato anche questi livelli. Siamo di fronte a processi che proseguono e durano milioni di anni.

Che cosa c’è di scientifico e cosa è solo leggenda in ciò che si sente dire sui cosiddetti “segnali premonitori”?

 In alcuni casi i segnali premonitori sono stati utili. Ad esempio, negli anni ’70 in Cina è stato previsto un grande terremoto, ma si tratta di un caso assolutamente isolato. Nella stragrande maggioranza delle situazioni, la previsione dello scatenarsi del sisma è impossibile. Nonostante i numerosi studi, dobbiamo riconoscere di essere abbastanza disarmati di fronte a questo fenomeno naturale. 

Secondo lei bisogna fare di più per studiare la zona, e un po’ tutto il Nord Italia?

Bisognerebbe favorire degli studi di maggior dettaglio che permettano di riconoscere eventuali tracce a testimonianza di terremoti più antichi. Si dovrebbero stanziare fondi per ricerche più sistematiche di tutte le possibili evidenze che possano aiutare a riconoscere il verificarsi di fenomeni di questo tipo in epoche non coperte dai cosiddetti “record” storici. Noi infatti conosciamo gli ultimi mille anni di storia sismica attraverso le cronache, le descrizioni, i racconti; ma per periodi più antichi non abbiamo notizie. Gli studi geologici dettagliati delle successioni rocciose potrebbero portarci a conoscenza di eventi importanti che hanno interessato la Pianura Padana e che sfuggono alla descrizione umana perché troppo indietro nel tempo. In tal modo potremmo avere un intervallo di tempo più ampio sul quale fare le stime e valutare i tempi di ritorno e la pericolosità dei fenomeni.

Quanto al controllo e al monitoraggio?

Mi sembra che l’azione dell’INGV sia valida e ben sviluppata. È chiaro che  più dati si riescono a raccogliere, tanto meglio. Il punto cruciale però, che richiede maggior attenzione da parte di tutti, è quello del rispetto delle regole edilizie antisismiche, un rispetto che deve essere più stretto. Poi c’è il problema degli edifici storici, realizzati prima della promulgazione di tali leggi, e che in Italia costituiscono un patrimonio prezioso che andrebbe controllato continuamente, tutelato e rinforzato dove si può. Ma si tratta di interventi molto costosi che richiedono scelte coraggiose. 

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