La personalità e la testimonianza di Jérôme Lejeune – il genetista francese scopritore della causa della sindrome di Down e per il quale la Chiesa ha avviato il processo di beatificazione – spicca nel panorama di questo Meeting 2012. «Un uomo razionale e anche pieno di speranza», ha detto la moglie Birthe, che interverrà oggi all’incontro di presentazione della mostra curata da Euresis, «è proprio perché sperava che ha messo tutta l’energia possibile nella ricerca di una possibile terapia». A raccogliere e a sviluppare la sua eredità c’è una fondazione, la Fondation Jérôme Lejeune che ha partecipato alla preparazione della mostra stessa, impegnata in favore delle persone affette da malattie genetiche che provocano disabilità intellettive e che opera al servizio dei malati e delle loro famiglie, perseguendo tre obiettivi: ricercare, curare, difendere. Jean-Marie Le Méné, che interverrà oggi all’incontro di presentazione della mostra insieme al professor Carlo Soave anticipa a ilsussidiario.net i contenuti del suo contributo. Le Méné è il Presidente della Fondation Jérôme Lejeune, oltre che membro della Pontificia Accademia per la Vita e del Consiglio Pontificio per la Salute.



Se lei dovesse sintetizzare in poche parole la testimonianza di Jérôme Lejeune, cosa direbbe?

Era una personalità unitaria; l’uomo e lo scienziato erano la stessa persona; le qualità dell’uno e dell’altro erano le medesime. La vita personale e la vita professionale del professor Jérôme Lejeune si riassumevano nella ricerca della verità e nella pratica della carità. La sua esigenza di conoscenza scientifica si accompagnava alla compassione per i malati. Allo stesso modo, la sua ricerca di Dio passava dall’amore al prossimo; l’una non si affermava a detrimento dell’altro: non metteva la verità in contrapposizione alla carità o viceversa. Ed era proprio questo che i suoi avversari non sopportavano. Erano pronti a salutare la scoperta della trisomia 21, ma non sopportavano – o non capivano – la sua opposizione all’aborto che consideravano contraria alla libertà delle donne. Come se non si trattasse della stessa persona o come si si potesse dividere in parti Jérôme Lejeune! In realtà, Lejeune era un bravo scienziato perché era un bravo medico ed era un bravo medico perché rispettava la vita e si rifiutava di sopprimere i pazienti che gli erano affidati.

Qual è quindi la sua eredità?

Direi la speranza naturale e soprannaturale. Era convinto che la scienza moderna arriverà un giorno a dare alle persone toccate dalla trisomia 21 le capacità intellettive di cui sono prive a causa della presenza di un cromosoma in più. «Tentare di ridare a ciascuno questa pienezza di vita che chiamiamo libertà dello spirito: ecco un obiettivo per noi e per i nostri successori». A condizione di affrontare un grande sforzo di ricerca. «Troveremo, è impossibile non trovare. È uno sforzo intellettuale molto meno difficile che mandare un uomo sulla Luna». E si è battuto con tutte le sue forze per arrivarci, ma è morto troppo presto per vedere i frutti delle sue ricerche. È per questo che era sostenuto anche da una speranza soprannaturale. «Siamo nelle mani di Dio», diceva spesso. Sulla sua spada di accademico aveva fatto incidere: «Deo juvante». Ciò illustra bene chi era Jérôme Lejeune: pronto a battersi con i mezzi a sua disposizione sulla Terra, ma con lo sguardo implorante i mezzi del Cielo.

Come la Fondation Jérôme Lejeune ha continuato il suo lavoro e ha sviluppato le sue idee?

La Fondazione creata dopo la sua morte non aveva scelta: bisognava riprendere la sua eredità ma tutta l’eredità, in tutta la sua coerenza, per non rischiare di essere inefficaci e infedeli a Jérôme Lejeune. Morendo, la sua angoscia era questa, io ne sono testimone diretto: «O riusciremo a guarirli dalla loro innocenza o ci sarà il massacro degli innocenti». Così l’eredità di Lejeune si condensa in questa frase: «Non ho che una soluzione per salvarli ed è quella di guarirli. Il compito è immenso, ma la speranza altrettanto». È per questo che ho voluto dare alla Fondazione questo motto: cercare, curare, difendere. In effetti, a cosa serve la ricerca per guarire le persone trisomiche se si eliminano tutte prima della nascita? E come si può, in questa società secolarizzata ed edonista, immaginare che i genitori rischino di dare la vita a un bambino disabile se non ha nessuna speranza perché non c’è nessuna ricerca? La Fondazione lavora dunque quotidianamente con questa tensione, in questo paradosso così difficile da comprendere e da vivere. Bisogna spiegare senza sosta ai politici, agli scienziati, all’opinione pubblica, che “tutto si tiene” e che, se non si è schizofrenici, non si può con la mano destra finanziare la ricerca per trattare i bambini disabili e con la sinistra abortire gli stessi bambini in nome di una falsa pietà

Quali sono i principali risultati delle vostre ricerche sulla trisomia 21 e sulla altre malattie genetiche?

Grazie al sostegno finanziario della Fondation Jérôme Lejeune, molti scienziati nel mondo lavorano sulla trisomia 21 in una prospettiva terapeutica. Ciò che sembrava impensabile appena quindici anni fa ora diventa possibile e i risultati lasciano sperare che siamo a metà strada nel cammino verso la cura cercata. È una prima vittoria quella di aver sconfitto la mancanza di speranza e il disfattismo dei ricercatori. La comunità scientifica nel suo insieme stima che presto si potrà trattare l’insufficienza intellettiva dei pazienti trisomici. L’obiettivo è di trovare soluzioni terapeutiche che attenuino il ritardo mentale migliorando le capacità di autonomia e di apprendimento dei pazienti. Molti trial clinici sono in corso presso la Fondazione e all’esterno. Gli studi attuali si orientano in due direzioni principali: da un lato si cerca di agire sul genotipo, cioè di inibire la sovraespressione degli enzimi legati ai geni del cromosoma supplementare, geni sospettati di essere responsabili del ritardo mentale. Dall’altra si prova ad agire sul fenotipo dei trisomici, cioè direttamente a livello del cervello, in particolare sui malfunzionamenti osservati nei neurotrasmettitori cerebrali.

 

Possiamo dire che oggi l’azione in difesa della vita trova ampio sostegno e incremento oppure siamo di fronte a nuove minacce e a nuove insidiose tendenze?

 

Circa vent’anni fa Jérôme Lejeune osservava che «il vero pericolo è nell’uomo, nello squilibrio sempre più inquietante tra la sua potenza che aumenta e la sua saggezza che regredisce». Da questo punto di vista le cose sono piuttosto peggiorate perché nella competizione tra la tecnoscienza e la morale è la prima che prevale. Lejeune aveva già descritto tutto ciò che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi: «Una società che si attribuisce il diritto di sperimentare sugli embrioni, di uccidere un feto nell’utero di una giovane donna che non è in grado di assumere le sue responsabilità e al tempo stesso di far generare bambini da una donna in età avanzata, è una società in pieno delirio».

Ciò che è cambiato dopo Lejeune, che criticava delle trasgressioni che erano ancora illegali, è l’avvento delle leggi cosiddette “bioetiche”, che sono delle macchine per legalizzare le trasgressioni. Come spiega bene l’enciclica Evangelium Vitae (1995), questi nuovi attentati contro la vita perdono il loro carattere di crimini per assumere quello di diritti. C’è ormnai confusione tra il bene e il male. La vita sociale ne risulta profondamente alterata. Accogliendo l’apertura della causa di beatificazione di Jérôme Lejeune, la Chiesa ci propone il modello oggi oltremodo necessario di un laico cristiano che ha sempre saputo far uso della scienza per il vero bene dell’uomo e che è stato un segno di contraddizione di fronte alla menzogna che uccide. Imitiamolo.