Passate le ferie estive, il bosone di Higgs torna alla ribalta della cronaca, questa volta grazie al Meeting di Rimini (ne parlano oggi due protagonisti della scoperta) e anche a un elzeviro apparso sul Corriere della Sera lo scorso mercoledì a firma di Arrigo Levi. Il giornalista, dopo aver ripercorso la nota vicenda editoriale che ha trasformato la “Goddam particle ” in “particella di Dio” e aver sottolineato l’insipienza, l’inopportunità e lo scarso rispetto delle tradizioni di una tale operazione pubblicitaria, prosegue facendo specifico riferimento ad un mio articolo pubblicato dall’Osservatore Romano.
Mi sembra che Levi abbia ben colto il mio tentativo di portare la riflessione riguardo questa fondamentale scoperta ad un livello diverso da quello puramente scientifico-tecnico, allargandola all’ambito filosofico, in particolare traendone le conseguenze su concetti universali come quelli di “spazio vuoto” e “nulla”, che dovrebbero interessare un pubblico più vasto. Credo però abbia travisato l’obiettivo che mi ero proposto quando conclude: “Se ho capito bene, il lungo articolo del giornale vaticano mirava, o così mi è parso, a rassicurare i teologi e i credenti sull’esistenza di Dio, nonostante il bosone. L’autore ci assicura anzi che se «il bosone di Higgs» riuscisse a «far riavvicinare gli scienziati alla teologia e i teologi alla scienza», meriterebbe di trasformarsi davvero in «superparticella di Dio». Questo mi sembra davvero un po’ troppo”.
Non era mia intenzione rassicurare chicchessia, né tantomeno alludere alla possibilità di rispolverare improbabili prove ontologiche basate sulla scoperta di Higgs. Anzi, la mia proposta di ribattezzare il bosone «superparticella di Dio», evidentemente ironica e provocatoria, voleva dare una scossa un po’ a tutti (scienziati, filosofi, teologi, umanisti) richiamando l’attenzione sulla necessità di riflettere a fondo sulla rilevanza filosofica (e quindi anche teologica) dei recenti progressi della fisica quantistica e della cosmologia, discipline che nel bosone di Higgs si ritrovano, come è logico sia, strettamente unite.
Credo infatti che quanto stiamo apprendendo – grazie alla scienza – sulle effettive capacità e limitazioni umane nel “conoscere” i fenomeni spazio-temporali e sulla caratteristica ”essenzialmente” evolutiva del cosmo, abbia un impatto equivalente, se non superiore, a quello generato dalla rivoluzione copernicana e il suo effetto, come ci ricorda la storia, non può rimanere confinato alla sola scienza. Levi, nella sua conclusione, sembra esprimere un’opinione diversa: “La scienza faccia la sua parte, e lasci che la nostra intensa riflessione sulle sorti dell’umanità, e su Dio, faccia la sua”.
Cultura scientifica e cultura umanistica devono quindi continuare a procedere per vie parallele ed incomunicabili? La scienza rappresenta un progresso di conoscenza di serie B, utile solo per le sue applicazioni tecnologiche? Su “questo” punto è importante chiarire le posizioni ed aprire il dibattito. Non c’è dubbio che la scienza attuale, in particolare la fisica quantistica e la cosmologia, abbiano raggiunto un tale livello di astrazione nella rappresentazione del reale che difficilmente le domande che esse si pongono e le risposte che ottengono sono comprensibili al di fuori di una ristretta cerchia di esperti.
Ciò non toglie che, al di là dei risultati di dettaglio, le indicazioni che la scienza ci offre oggi su concetti basilari come quelli di spazio, tempo, causalità e divenire e su una più precisa definizione epistemologica del metodo scientifico, non solo sono di interesse generale ma non possono essere ignorati. Non è la stessa cosa “riflettere intensamente sulle sorti dell’umanità e su Dio” in un mondo statico con confini certi, come ci appariva fino alla metà del secolo scorso, oppure in un universo in evoluzione nei suoi contenuti e nei suoi orizzonti conoscibili, e neppure pensare al destino dell’uomo in termini di spazio e tempo assoluti – alla Kant – oppure all’interno di un continuo spazio-temporale che è intimamente plasmato dalla materia-energia che pervade tutto il cosmo.
La saggezza antica distingueva intuitivamente tra zemán e ‘eth, kronos e kairós, tra il tempo cronologico e il tempo opportuno, sacro, vissuto coscientemente: popoli successivi, forse più preoccupati della praticità del linguaggio, avevano oscurato questa sottile distinzione, che ora riemerge naturale e prepotentemente nel riflettere sul destino dell’uomo all’interno di un modello evolutivo del cosmo.
È senz’altro corretto auspicare che “la scienza faccia la sua parte”, in completa autonomia, ma se la riflessione filosofica (e teologica) sulla condizione umana ne ignorasse i risultati – quasi fossero “profani”, da lasciar fuori dal “tempio” – rischierebbe di isolarsi in una torre eburnea sempre più irreale, dove la Terra è al centro dell’universo e oltre la Luna c’è solo quintessenza. Senza giungere a tanto, molto più concretamente, in ambito teologico cristiano, si rischierebbe di offrire una interpretazione distorta dell’atto creativo, come evento che avviene “nel tempo”, cedendo all’ingenuità di identificare il Fiat lux biblico con il Big-bang, mentre invece, interpretando correttamente le evidenze cosmologiche attuali, il concetto tomistico di creatio continua, secondo il quale anche il tempo è creato, può dispiegare oggi tutta la sua potenza interpretativa.
Il mio auspicio è quindi quello di un approccio epistemologico allargato, proprio di una humanitas integrale, dove scienza, filosofia, arte, poesia e teologia si completano vicendevolmente, senza arroccarsi ciascuna nella propria obsoleta hybris. Nel perseguire questo obiettivo non posso dimenticare gli insegnamenti di un grande maestro, Andrea Zanzotto, mio professore di lettere alle medie, che intercalava le spiegazioni sulla consecutio temporum ad appassionate lezioni sull’algebra binaria di Boole, entusiasmato dalle prospettive della nascente cibernetica, per poi imporci di imparare a memoria (sí, a memoria, par coeur e in latino!), l’Inno alla Carità di San Paolo e il Discorso della montagna.
A novant’anni, pochi giorni prima di morire, mi chiedeva, curiosissimo, notizie sui neutrini che sembravano muoversi più veloci della luce. La sua poesia, da “Fosfeni” a “Conglomerati”, è densamente intrisa di fisica e di scienza e forse in futuro ci accorgeremo, letterati, filosofi, scienziati e teologi, che l’intuizione poetica e la sua “Beltà” non è una via inutile né banale per avvicinarci un po’ di più all’essenza del bosone e a Dio.