Chiunque si trovi al essere “il primo che” compie una determinata impresa raggiunge, per definizione, un traguardo insuperabile. Ma se il primato è quello di aver posto la prima impronta umana sulla Luna, allora l’eccezionalità acquista un livello straordinario e il racconto di come si sono svolti i fatti, anche se ripetuto, non riesce ad essere scontato o monotono. La recente scomparsa di Neil Armstrong è stata occasione per ritornare a quei favolosi momenti; ma ancor più interessante è accedere al resoconto della vicenda così come l’ha raccontata lui stesso.

Ci aiutano in questo una serie di articoli pubblicati sul finire del fatidico 1969 da L’Europeo, come traduzione da Life Magazine. Apprendiamo così che l’astronauta americano aveva avuto la certezza di andare sulla Luna soltanto nel gennaio precedente e che sulle prime aveva avuto molti dubbi sulla riuscita della missione: «Non che pensassi a un insuccesso clamoroso e tantomeno a un disastro. Soltanto ritenevo che l’Apollo 11 non fosse ancora perfettamente a punto, come sperimentazione, per raggiungere la superficie lunare. Ritenevo che soltanto con l’Apollo 12 tutti i problemi si sarebbero risolti».

Poi ci sono stati i voli dell’Apollo 9 e 10 e il loro successo ha ridato fiducia a Neil che si era buttato a capofitto e con entusiasmo nei preparativi. Ma nell’imminenza del lancio, anche uomini così preparati e “freddi” subiscono “l’effetto vigilia”: come prima di ogni esame sembra di non ricordare più nulla e di aver trascurato un sacco di particolari, così Armstrong è stato assalito da nuove ansie e timori di non essere preparato a dovere e di aver ancora troppe cosa da imparare. Ma poi la scadenza si impone e le paure lasciano il posto all’attenzione e alla serietà nell’osservare scrupolosamente tutte le procedure stabilite.

Il punto più emozionante del racconto riguarda, comprensibilmente, le fasi dell’allunaggio. Armstrong parla di una lunga giornata, iniziata col risveglio alle 5.30 ora di Houston e culminata toccando il suolo lunare dieci ore dopo. La discesa verso la superficie del satellite era andata bene fino al quota 10.000 metri; poi il computer di bordo aveva iniziato a segnalare un allarme: «ci fu, a bordo, un momento di incertezza.  Non sapevamo cosa fare per sbloccare il calcolatore». Un intervento provvidenziale dei tecnici di Houston verificò che si poteva ignorare l’allarme e che non c’era alcun pericolo.

I problemi non erano però finiti. Il panorama lunare, che iniziava a delinearsi agli occhi dei tre astronauti, rivelava un luogo di allunaggio tutt’altro che favorevole: «c’erano massi grandi come automobili sparsi tutto attorno al cratere e il suolo era accidentato». Bisognava prendere una decisione in pochi secondi, pilotando “Aquila” (così era stato denominato il LEM, il modulo lunare), che viaggiava a 50 miglia orari, verso una zona più pianeggiante: un’azione degna del più abile giocatore dei moderni videogame, che Armstrong ha eseguito brillantemente.

Infine gli ultimi istanti, caratterizzati da un lato dalla polvere lunare sollevata dal LEM che impediva una piena visuale; dall’altro da un ultimo attimo di suspence, quando Neil ha avuto l’impressione di non aver carburante sufficiente e di dover rinunciare in extremis allo sbarco. Anche lì, un attimo solo per decidere. E la scelta si è rivelata corretta.

Ed ecco allora un altro tipo di emozione. Non più “tecnologica” ma profondamente umana; anche se continuamente controbilanciata dalla tensione e dalla prudenza per non commettere errori o distrazioni. Quanto alla questione della celebre frase – “questo è un piccolo passo per un uomo, un passo gigante per l’umanità” – Armstrong rivela (ma non avevamo dubbi) che non è stata improvvisata ma è stata scelta, «al momento di uscire da Aquila» tra una serie di tre già pensate prima della partenza.

La descrizione delle attività svolte sul suolo lunare da Armstrong e “Buzz” Aldrin offre solo una pallida idea del loro comprensibile affannarsi per riuscire ad osservare e a raccogliere quante più cose erano loro  possibili: «il sentimento che era in me era quello dei vecchi esploratori, sempre ansiosi di scoprire che cosa c’è dietro la prossima collina».

La ripartenza del LEM non ha dato particolari problemi ed è stata per Neil occasione per “pensare”, visto che finora era stato tutto preso a “vedere”. E il pensiero si sforzava di trovare un senso a quelle immagini che restavano scolpite nella sua mente. Soprattutto quella della Luna che eclissava il Sole facendo emergere un contorno luminoso “come una immensa aureola infuocata”: «un’immagine incredibile, meravigliosa, quasi un simbolo astratto del cosmo». Armstrong racconta di sentirsi per un istante perduto ma senza provare paura; anzi, con «uno smarrimento ai limiti della gioia più intensa». Coglieva la sfericità del satellite e aveva l’impressione che «proponendosi ai nostri occhi in una forma così simile alla Terra, ci desse il benvenuto. Da tanto tempo stava aspettando il suo primo visitatore».