Ian Tattersall è un paleoantropologo, un paleontologo cioè specializzato nello studio dei fossili umani, quei reperti che documentano il cammino dell’evoluzione dell’uomo; è uno dei più noti e ha diretto molte campagne sul campo, in Africa e Asia, ed è curatore emerito del Museo di Storia Naturale di New York. Incontrarlo significa partecipare un po’ del fascino delle sue ricerche e condividere la sfida più stimolante per lui: quella di cercare di capire come pensavano e cosa pensavano i nostri progenitori, come leggevano lo spettacolo della natura, come si lasciavano interrogare dalla realtà. Ovviamente non è nei fossili che si possono trovare risposte dirette, ma inizia da lì un percorso di indizi che può trovare nella documentazione archeologica delle prove più consistenti.



Quando si pensa all’evoluzione è consueta l’immagine di un crescendo lineare che gradatamente ha portato fino a noi. In realtà la scienza si è allontanata da tale immagine. Ma se non è un percorso lineare, si tratta di qualcosa di caotico, di puramente casuale?

L’idea di una evoluzione graduale era la posizione degli scienziati cha hanno elaborato la cosiddetta teoria sintetica nella prima metà del secolo scorso e che riducevano i fenomeni evolutivi alla competizione e selezione naturale. Verso gli anni ‘70 però è diventato sempre più chiaro che questo modello non era adeguato. Soprattutto la documentazione fossile mostrava l’evidenza di un cammino con interruzioni e periodi di assenza di cambiamento. Ciò significava che la selezione naturale non è l’unico fattore dei cambiamenti evolutivi e che altri agenti sono coinvolti, comprese le interazioni con l’ambiente: i mutamenti ambientali sono in effetti un grande driver dell’evoluzione. Naturalmente interviene anche il caso. Bisogna però considerare che quando parliamo dei processi evolutivi spesso siamo portati a semplificare le cose: in realtà noi non guardiamo al singolo processo ma a una storia fatta dall’accumularsi di molti e diversi elementi.



Alcuni parlano del manifestarsi del caso cieco.

Caso è una parola delicata. Certo, il caso è un elemento presente in tutta la nostra esperienza umana e non è incomprensibile che nel corso dell’evoluzione biologica intervengano cambiamenti casuali, insorgano differenze e variazioni, dovute anche al fatto che cambia l’ambiente, che si verificano fenomeni improvvisi, disastri naturali, a volte catastrofici. La mia idea della selezione naturale è che sia molto importante ma che agisca più nelle fasi di stabilizzazione delle popolazioni che nel produrre le novità e i mutamenti. Per spiegare questi bisogna introdurre altri fattori.



Veniamo all’emergere dell’uomo: c’erano segni che stava per accadere qualcosa del genere o si è trattato di un fatto totalmente imprevisto? 

Ci sono biologi, come Simon Conway Morris, che pensano a un cammino di convergenze destinato a portare inevitabilmente all’Homo Sapiens. Non condivido questa visione. Ci sono stati troppi eventi, troppe situazioni speciali, troppi fattori in gioco. Non penso quindi che si possa individuare un senso di inevitabilità in tutti questi fenomeni e processi.

 

Il cammino dell’evoluzione umana è solo una questione di competizione, di lotta per la sopravvivenza o è anche una storia di cooperazione?

 

Dipende dalla scala alla quale si considera il problema. Se si pensa alle altre specie, allora quello della competizione è il principale fattore che determina il formarsi dei successivi scenari evolutivi che oggi possiamo rileggere. D’altra parte, se consideriamo nello specifico la specie Homo Sapiens, conta molto di più l’aspetto della cooperazione; molto più di quanto non si possa riscontrare tra altre specie relativamente vicine alla nostra, come le scimmie o gli altri primati. Questa nostra inusuale propensione al comportamento cooperativo è un fatto che fa molto riflettere. Del resto l’Homo Sapiens ha una tendenza naturale alla socialità, anche qui in modo molto più spiccato delle altre specie: siamo più inclini a rapportarci con gli altri, a preoccuparci per gli altri, e viviamo in una complessa rete di relazioni e interazioni. Ed è un tratto che emerge molto presto nella storia evolutiva umana.

 

Lei sostiene che la dimensione simbolica è il tratto distintivo dell’Homo Sapiens: come è emersa?

 

Non lo riconosciamo esaminando i fossili, non potremmo. Abbiamo però una documentazione archeologica importante. Riconosciamo la dimensione simbolica nelle pietre, nel come erano lavorate e nei segni che sono rimasti su esse; ma anche nei resti dei siti abitativi, nel modo di organizzarli e strutturarli. E poi ci sono dei veri e propri oggetti simbolici, dei manufatti non giustificabili diversamente. Questi oggetti ci suggeriscono come pensavano quegli esseri umani: noi uomini ricostruiamo il mondo nella nostra testa e produciamo oggetti frutto di questa rielaborazione; non ci limitiamo, come altri animali, a reagire agli stimoli che arrivano dal mondo. Pensando alle grandi scimmie, capita spesso di sentire dire che “hanno fatto cose che finora si pensava facessero solo gli uomini”: tuttavia non si può affermare che arrivino ad avere una capacità simbolica. È questo l’abisso cognitivo tra noi e le scimmie.

 

E quando si è manifestata?

 

Agli inizi del cammino dell’Homo Sapiens, circa 200 mila anni, non c’era ancora; i primi Sapiens non si comportavano come noi oggi ma più come gli uomini di Neandertal. Possiamo pensare che in quel periodo si sia prodotta qualche piccola modifica a livello cerebrale che ci ha dato un potenziale nuovo; un potenziale che è rimasto inoperoso finché si è scatenato lo stimolo principale, il linguaggio. A mio avviso l’evento determinante è stata l’invenzione spontanea del linguaggio, probabilmente in una piccola popolazione in qualche luogo dell’Africa: il linguaggio è una facoltà che prevede creazione e manipolazione dei simboli. Solo verso i 100 mila anni fa si rivela un comportamento radicalmente nuovo dell’Homo Sapiens, caratterizzato dalla capacità di innovazione e di astrazione ed emblematicamente concretizzato nella produzione di oggetti simbolici; una tendenza realizzata in pieno 40 mila anni fa con la grande arte rupestre.

 

Quindi si è trattato di un evento preciso, non determinato da qualcosa di antecedente?

Il passaggio dall’Homo “non simbolico” all’Homo “simbolico” era impensabile, ma è accaduto; ed è accaduto in un unico evento, non gradualmente.

 

E cosa è cambiato da allora?

 

Non ci sono stati ulteriori particolari mutamenti biologici ma l’evoluzione culturale ha avuto uno sviluppo rapido e pervasivo, con una intensità non riscontrabile in alcun modo nella documentazione archeologica precedente. Prima della dimensione simbolica, le cose non cambiavano frequentemente, non c’era quella varietà e differenziazione che riscontriamo poi. Questo ci dice molto di come l’evoluzione umana è proseguita e come proseguirà in futuro: non tanto a livello biologico ma a livello culturale. E ci dice che è possibile vivere la vita in modo sempre più significativo.

 

(Michele Orioli)

 

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