Se l’uomo è in grado di alterare il clima attraverso l’immissione in atmosfera di gas serra perché non potrebbe intervenire anche per mitigarne gli effetti? È questa l’idea alla base della “geoingegneria”. Con questo termine si intende un intervento deliberato, su larga scala, sul clima terrestre mirato a mitigare il riscaldamento globale. La geoingegneria si divide in due categorie: la prima riguarda lo sviluppo di tecniche per la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, la seconda la riduzione della radiazione solare incidente sul pianeta.
Un recente articolo di McClellan et al. (Environmental Research Letters, 2012) riguarda questa seconda categoria e presenta una dettagliata analisi dei costi necessari per immettere nell’atmosfera, ad una altezza compresa fra 18 e 25 km, alcuni milioni di tonnellate per anno di anidride solforosa. Gli autori precisano a più riprese che non intendono entrare nel merito della efficacia scientifica dell’idea ma intendono solo mettere in evidenza che i costi sostenuti sarebbero nell’ordine dell’1% rispetto a quelli previsti a seguito dei danni provocati dal riscaldamento globale.
Diverse sono le idee allo studio per ridurre la radiazione solare incidente sul pianeta: si va da grandi specchi posizionati nello spazio per riflettere la luce solare a proposte più “serie” che iniziano ad essere dibattute nei congressi scientifici, quali il Marine Cloud Brightening, dove si prevede di inseminare stratocumuli marini con piccole goccioline di acqua per incrementarne la riflettività (Parkes et al., ISRN Geophysics, 2012). Una delle idee più studiate consiste appunto nella immissione nella stratosfera (che si trova al di sopra della tropopausa e inizia ad una altezza di circa 12 km.) di anidride solforosa che, reagendo con il vapore acqueo, forma delle goccioline di acido solforico che disperdono la luce solare incidente. Questa proposta prende spunto dalle osservazioni sugli effetti climatici delle eruzioni vulcaniche.
Occorre precisare che solo alcuni tipi di eruzioni vulcaniche hanno un effetto sul clima: innanzitutto l’eruzione deve essere sufficientemente intensa da emettere una grande quantità di polveri nella bassa stratosfera, ovvero in quella fascia atmosferica compresa tra i 20 ed il 25 km di altezza e, in secondo luogo, il vulcano deve trovarsi alle basse latitudini. Se si verifica la prima condizione, l’abbondante quantità di polveri non ricade sulla superficie terrestre, cosa che succederebbe se il materiale eruttato finisse solo nella troposfera, ovvero all’interno della fascia atmosferica a noi più vicina dove si verificano tutti i fenomeni meteorologici che disperderebbero velocemente le polveri eruttate.
Finendo invece nella bassa stratosfera, caratterizzata da assenza di rimescolamento, la nube di cenere troverebbe il modo di espandersi orizzontalmente fino a formare un esteso velo opaco che sarebbe in grado di riflettere verso lo spazio una maggiore quantità di radiazione solare incidente. Se l’eruzione vulcanica avvenisse poi alle basse latitudini, che è la seconda condizione posta, allora l’effetto sul cambiamento climatico sarebbe più efficace. Solo in questo modo il “velo” di polveri sarebbe capace di raggiungere, a causa della natura della circolazione generale dell’atmosfera, anche le latitudini più alte dell’emisfero in cui il vulcano erutta distribuendole così su una larghissima fascia latitudinale.
Tra le eruzioni vulcaniche recenti, rientra nelle due condizioni appena descritte, quella del Pinatubo, nelle Filippine, avvenuta nel giugno 1991. Durante questa eruzione, i 15 milioni di tonnellate di ceneri espulse dal cratere raggiunsero addirittura i 40 km di altezza e lo spesso di polveri aumentò del 2% la riflessione verso lo spazio dei raggi solari: la conseguenza fu un raffreddamento globale di 0.5 °C nei due anni successivi all’eruzione (Robock A. et al., Science 327, 2010).
Sembrerebbe semplice dunque, ma purtroppo le cose sono molto più complicate. L’immissione di anidride solforosa con successiva formazione di goccioline di acido solforico determinerebbe una serie di reazioni che porterebbe ad una riduzione dello strato di ozono in atmosfera (Pope F.D. et al., Nature Climate Change, 2012). Anche secondo un altro autore (Tilmes et al., Science, 320, 2008) l’immissione in atmosfera di zolfo in quantità tale da compensare gli effetti del riscaldamento, dovuti al raddoppio della anidride carbonica, determinerebbe una notevole riduzione dell’ozono ai poli e rimanderebbe di circa 30-70 anni la sua ricostituzione in Antartide.
Ancora più importanti sono gli aspetti politici e sociali che deriverebbero da eventuali tecniche di modificazione del clima. Ad esempio tali conoscenze sarebbero di proprietà solo di alcune nazioni oppure si dovrebbero considerare come un bene comune di tutta l’umanità? E in tal caso, gli eventuali brevetti come verrebbero gestiti? In un recente meeting di geoingegneri ad Asilomar (California) si è accennato a raccomandazioni, per ora molto vaghe, sulla necessità di condurre ricerche pubbliche, consultare la pubblica opinione nella pianificazione di tali ricerche, creare nuovi meccanismi per la governance delle attività climatiche a larga scala.
Allo stato attuale delle conoscenze intervenire deliberatamente sul clima per modificarlo sembra più un azzardo che una attività scientifica, proprio perché non si conoscono completamente i complessi processi che sono alla base del clima e delle sue variazioni.
In attesa di saperne di più conviene – come già ammoniva la mostra Atmosphera curata da Euresis per il Meeting di Rimini 2008 – agire con “responsabilità”, “prudenza” e “temperanza”.