Facciamo ancora fatica a familiarizzare con le nanomisure: riusciamo a pensare di dividere un millimetro in dieci parti, ma pensare di ridurlo a un millesimo (per avere un micron) o ancor più a un milionesimo (per arrivare al nanometro) è al di sopra di ogni nostra capacità immaginativa. Eppure il nanomondo è una realtà sempre meglio indagata con strumenti potenti e precisi e sempre più riprodotta con i metodi e i sistemi delle nanotecnologie. Tanto che c’è chi parla già di nanoscience society, come faranno gli scienziati che nei prossimi giorni a Venezia daranno vita all’ottava conferenza della serie The Future of Science, organizzata dalle Fondazioni Umberto Veronesi, Silvio Tronchetti Provera e Giorgio Cini e dedicata appunto alle nanoscienze. Per tre intense giornate si parlerà delle ricerche più avanzate e dei settori applicativi più promettenti, senza trascurare le implicazioni economiche, sociali ed etiche. E nella tavola rotonda conclusiva si getterà uno sguardo alle prospettive future delle nanoscienze. Uno dei protagonisti di questo momento conclusivo sarà Paolo Milani, direttore del CIMAINA – Centro Interdisciplinare Materiali e Interfacce Nanostrutturati dell’Università degli Studi di Milano, che anticipa a ilsussidiario.net i principali contenuti del suo intervento.



Prima di proiettarci nel futuro, diamo uno sguardo al presente: le nanotecnologie stanno mantenendo le promesse?

Dipende. Possiamo dire che le nanotecnologie stanno mantenendo le promesse. Non le sta mantenendo invece chi le aveva utilizzate per delineare scenari irrealistici.  Ad esempio chi diceva che le nanotecnologie avrebbero risolto il problema energetico, o che avrebbero trasformato la gestione della salute  e così via. Certo, si sono fatti progressi non indifferenti; ma lo scenario di un mondo completamente rivoluzionato ad opera delle nanotecnologie  questo no, non sta avvenendo ma semplicemente perché era irrealistico prometterlo. Del resto, ciò vale per qualunque tecnologia: non hanno senso gli atteggiamenti fideistici secondo i quali l’affermarsi di una nuova tecnologia cambierà il mondo: il mondo deve cambiare perché vale la pena cambiarlo, dopo di che si devono scegliere le migliori tecnologie che aiutano questo cambiamento. Non è la tecnica che spinge il cambiamento semmai è il viceversa.



Quali sono i settori dove gli sviluppi sono più avanzati?

Gli ambiti più avanzati, anche se sono meno di impatto sull’immaginario collettivo, sono quelli dell’elettronica, soprattutto delle apparecchiature dell’elettronica di consumo: lì si usano da decenni e la gente non lo sa, anche se ne utilizza quotidianamente i frutti. Le apparecchiature per informatica e telecomunicazioni che tutti noi utilizziamo si basano ormai su componenti di dimensioni di 30-40 nanometri e si va verso valori ancor più piccoli. Altri settori interessanti sono i materiali nanocompositi per applicazioni nell’aerospaziale, nell’automotive, nell’ingegneria strutturale. E poi ci sono tanti altri settori che fanno uso di additivi su scala nanometrica: un esempio per tutti e quello della cosmesi. Anche la medicina inizia ad essere uno dei settori più influenzati dagli sviluppi nanotecnologici: cominciano ad esserci farmaci basati su vettori di rilascio su scala nanometrica e nella medicina rigenerativa (ad esempio le protesi) i materiali nanostrutturati stanno mostrando notevoli vantaggi. 



Quali settori invece vanno più a rilento?

Ciò che va a rilento, più che un settore o l’altro, è la creazione di nuovi settori industriali che abbiano il loro punto di forza su sistemi di produzione basati sulle nanotecnologie. Quindi i cosiddetti sistemi basati esclusivamente su componenti nanostrutturati non sembrano proprio dietro l’angolo. Ma è effettivamente un decollo difficile, soprattutto per ragioni economiche.

Diamo ora uno sguardo al futuro: siamo in vista di qualche “salto quantico” o continuerà una crescita graduale? 

È difficile dirlo. Probabilmente in campo energetico potremo assistere a qualche avanzamento più rapido. Ma anche nella stessa elettronica di consumo, in quell’area detta dell’elettronica flessibile, potremmo essere vicini a un salto quantico. In grande ascesa c’è anche la robotica, e quel settore, non più avveniristico, delle cosiddette interfacce neurali. E poi la medicina, sia come nuove possibilità di diagnostica che di cura. Comunque dipende sempre da cosa si intende per salto: se si pensa all’arrivo di prodotti di massa interamente basati sul nanotec, questo è più difficile da prevedere perché i fattori in gioco sono tanti.

 

Come è messa l’Italia? Dove si fa più ricerca sulle nanoscienze? 

 

Non siamo messi bene. Non perché le nanotecnologie non siano ritenute importanti; è che l’Italia non funziona come sistema. La ricerca c’è ed è prevalentemente universitaria o condotta in istituti come quelli del Cnr e l’Iit di Genova, che è focalizzato proprio su questi temi. Al di fuori di questi soggetti, fanno eccezione una grande realtà industriale come STMicroelectronics e  aziende come Saes Getters, che sta facendo un’ottima attività di ricerca: ma esempi così si contano sulla punta delle dita. Comunque anche gli importanti centri di eccellenza, che non mancano, registrano l’assenza intorno a loro di un humus adeguato che sappia valorizzare quanto viene fatto. 

 

Il mondo imprenditoriale quindi non se ne è accorto?

 

Il mondo industriale italiano ha tanti e tali problemi che non si riesce neppure a infierire: siamo in un Paese che si sta deindustrializzando. Va anche detto che il nostro mondo industriale non ha mai guardato all’innovazione tecnologica di prodotto come a un driver di sviluppo e di crescita; si è più inclini ad andare verso l’innovazione di processo. Per di più il sistema pubblico non ha mai supportato la creazione di realtà organiche e diffuse. Noi siamo un popolo di dannunziani: ci sono tante individualità riconosciute come eccellenti che però hanno intorno il nulla. Forse un po’ meno di genio e un po’ più di regolatezza sarebbero preferibili.

 

Pensando soprattutto alle applicazioni in campo biomedico e ambientale, è giusto preoccuparsi per possibili effetti indesiderati o addirittura pericolosi?

 

Non solo è giusto ma è doveroso. Del resto in tutte le tecnologie c’è l’esigenza di applicare il principio di precauzione e di coinvolgere tutti gli attori, dai ricercatori ai produttori ai consumatori, in un percorso di attenzione e responsabilità. Da questo punto di vista credo che le nanotecnologie siano partite col piede giusto, perché stanno affrontando il problema considerando tutti i necessari ingredienti. Il fatto è che si tratta di un problema intrinsecamente difficile perché totalmente nuovo. Già non è banale definire la metodologia con la quale fare la validazione dei rischi; è un grosso scoglio col quale ci stiamo misurando: non sappiano ancora bene qual è la metodologia adeguata. Tenga conto però che processi in cui le nanoparticelle vengono utilizzate in modo da risultare dannose per l’ambiente e per l’uomo non ce ne sono tanti. Ci sono peraltro tecnologie anche mature che rilasciavano nanoparticolato nell’ambiente senza che nessuno se ne rendesse contro; allora, se c’è un merito delle nanotecnologie è di aver indirizzato l’attenzione anche su questo. In ogni caso abbiamo maturato una sensibilità tale che può aiutarci a non ripetere vecchi errori: un caso come quello dell’amianto, per fare un  esempio eclatante, è un rischio che ragionevolmente non stiamo correndo con le nanotecnologie. Certo, molto c’è ancora da fare; però mi sembra di poter dire che almeno ci stiamo ponendo i problemi giusti.

 

(Mario Gargantini)