Esiste una colorita espressione inglese (“I smell a rat here”), che in italiano verrebbe tradotta con “sento puzza di bruciato” oppure “gatta ci cova”, perfettamente appropriata per descrivere lo studio recentemente pubblicato con suono di fanfare e tamburi mediatici qualche giorno fa sulla rivista Food and Chemical Toxicology.
Nella pubblicazione, un gruppo di ricercatori francesi a cui partecipa anche una ricercatrice italiana, ha riportato i risultati di una ricerca durata oltre 2 anni in cui hanno sottoposto dei ratti a diete contenenti mais (convenzionale o transgenico di un certo tipo resistente ad un erbicida (il glifosate), sia cresciuto con o senza erbicida) e a cui hanno dato da bere acqua con o senza dosi crescenti dello stesso erbicida. L’idea era di evidenziare, se possibile, eventuali effetti del mais transgenico in combinazione con il relativo erbicida.
Il primo dato che il lettore deve conoscere per poter giudicare il lavoro è che anche i ratti si ammalano di tumore e, come gli altri animali, quanto più un ratto vive, tanto maggiore è la probabilità che il ratto si ammali (di tumore), perchè questa è una malattia tipica dell’età avanzata, dovuta all’inceppamento dei meccanismi di controllo della proliferazione cellulare. Con un’analogia, è molto improbabile che un pneumatico nuovo scoppi dopo pochi km, mentre è facile che succeda quando è vecchio, cioè la probabilità aumenta man mano che passa il tempo ed aumenta l’usura.
In particolare, il ceppo usato dai ricercatori (Sprague-Dawley) è un ceppo standard nella ricerca biomedica, ma presenta un tasso di mortalità a due anni del 20-60%, con il valore preciso che dipende dal sesso, dalla dieta, dallo studio…etc. I ratti di questa età muoiono spesso di tumore o addirittura vengono soppressi apposta quando i tumori sono troppo grossi, al fine di evitare sofferenze inutili alle bestie. Varie pubblicazioni (a partire dagli anni ’50 del secolo scorso) hanno evidenziato anche che una dieta ad libitum (senza alcuna restrizione) aumenta la velocità con cui i tumori insorgono. Detto altrimenti, mangiare a sazietà non fa affatto bene ai ratti, ma, lo sappiamo da anni, anche agli uomini e la temperanza di cui si parla a catechismo (by the way, se ne parla ancora?) sarebbe la miglior cura contro il cancro…
Se prendiamo 10 ratti maschi in queste condizioni, qual’è la probabilità che questi sviluppino tumori nel corso dell’esperimento? Come detto prima, sarà un valore tra 20 ed il 60 %, cioè tra 2 e 6 ratti. Mettiamo che sia il 46%, giusto a scopo di esempio, per continuare il nostro ragionamento, anche se il valore esatto si può solo conoscere facendo un esperimento con tanti ratti di controllo, cioè quelli che semplicemente sono cresciuti con la dieta standard, ma che non ricevono la sostanza sospettata di essere tossica. Se fosse il 46%, e io prendessi dieci ratti a caso, mi aspetterei di trovare poco più di 4 ratti e mezzo ammalati con tumore. Ovviamente non è possibile osservare un topo frazionario con tumore, per cui ne troverò magari 4 o 5, o anche 2, o ancora 7 o 8 a seconda del campione prelevato. Provo a fare un esempio facile per spiegare: se ho il 30% di mele bacate in una cassa, quante probabilità ho di trovarne due sane se ne prendo solo due? O trovarne due bacate se ne prendo ancora solo due? La riflessione di un momento ci fa capire che quanto più piccolo è il campione, (2 mele o 10 ratti), tanto più facile è che io ottenga un valore che non è rappresentativo della media, ma che può essere anche molto sballato (0% o 100% delle mele bacate) rispetto al valore vero. Per uno statistico è facilissimo calcolare che 10 ratti non sono un numero sufficiente per trarre delle conclusioni sensate da uno studio come questo. Questo argomento da solo ci permette di rigettare il lavoro come amatoriale (e infatti è stato fatto da gente che non fa questo di mestiere) e quindi non pubblicabile su una rivista scientifica. Se poi è stato pubblicato è solo sintomo che il processo di peer review è imperfetto, ma questo è un altro problema.
Il secondo punto degno di menzione è che non c’è relazione tra dose (di mais o di glifosate) e l’effetto (morte o tumore). Nel lavoro ci sono ad esempio gruppi di animali trattati con alte dosi che stanno meglio dei ratti di controllo (si veda ad es. il grafico in alto a sinistra della figura 1 a pagina 3 del lavoro pubblicato dove i gruppi di maschi con il 22 o il 33% di mais nella dieta presentano un solo individuo morto rispetto ai tre del gruppo di controllo). Una delle regole cardini della tossicologia è che se si aumenta la dose di composto presunto tossico, vi aspettate che aumenti l’effetto, o al massimo, nei rari casi in cui l’effetto va a saturazione, che l’affetto rimanga tale e quale, ma di certo che non scenda.
Queste due considerazioni di fondo (limitatezza del gruppo di controllo e assenza di relazione dose-effetto) rendono il lavoro un ottimo esempio di sperimentazione che non avrebbe mai dovuto essere pubblicata e neanche eseguita perchè di fatto ha rappresentato solo un’inutile crudeltà verso gli animali. Sarà anche utile per mostrare agli studenti come non si fa scienza, ma è stato a prima vista un puro spreco di denaro per il committente e di tempo per i ricercatori.
A demolire ulteriormente la credibilità del lavoro si aggiunge la non disponibilità del responsabile della ricerca, Gilles-Eric Seralini, un biologo molecolare dell’Università di Caen, a rilasciare i dati completi sullo studio, così che gli altri ricercatori competenti possano riesaminarli per bene, per eseguire analisi statistiche meno fantasiose. Non entro qui nel dettagli della sterminata letteratura pregressa con cui questo studio va in conflitto, nè l’assenza di meccanismi plausibili per i presunti effetti che pretende di aver evidenziato. Fossero anche veri tali effetti (anche se lo ripeto, i dati non permettono affatto di dedurre un effetto tossico del mais o dell’erbicida), sarebbe comunque del tutto insensato pretendere, come fanno gli autori, di trarne conclusioni su tutti gli altri transgeni in commercio o in fase di ricerca. Fornisco solo un dato di realtà per stimolare la riflessione: l’Italia produce e macella ogni anno circa 600 milioni di animali, in gran parte polli, ma anche maiali, mucche, capre, pecore, conigli…etc. Gran parte di questi 600 milioni vengono alimentati con soia transgenica (4 milioni di tonnellate importate ogni anno dall’Italia) da oltre 10 anni. Se le piante transgeniche in commercio avessero effetti negativi, possibile che nessuno (allevatori, veterinari in forza alle aziende, servizi veterinari regionali, ministeri…) se ne sia accorto? Discorso analogo per l’intera UE che importa circa 40 milioni di tonnellate di soia, di nuovo in gran parte transgenica, per sfamare miliardi di animali ogni anno.
Per ultimo e solo incidentalmente, sembra che lo studio sia stato finanziato attraverso una fondazione con 3 milioni di euro pagati dai giganti della distribuzione Carrefour e Auchan, che hanno palesi interessi in gioco e che, come altri gruppi, anche italiani, di questo settore, hanno puntato molto sulla comunicazione di essere “liberi da OGM”. È ovvio che un eventuale circuito mediatico alimentato da pubblicazioni scientifiche ad hoc, che terrorizzi la popolazione attraverso i media e che sposti anche solo una fetta di mercato dell’1% si tradurrebbe in grossi profitti che giustificherebbero un “investimento” nella pseudoscienza di Seralini. Un motivo in più, anche se non il primo, per diffidare di tale pseudoscienza.