«Per arrivare ai confini della conoscenza del mondo, cercate le menti più complesse e sofisticate, mettetele insieme in una stanza, e fate in modo che si pongano l’un l’altro le domande che ognuno pone a se stesso».  Questa è la ricetta di John Brockman per costruire la “terza cultura”, come egli ha definito, nel libro omonimo pubblicato anche in Italia nel 1995, il fenomeno conoscitivo costituito da «quegli scienziati e altri studiosi del mondo empirico che, con il loro lavoro e i loro scritti, stanno prendendo il posto dei tradizionali intellettuali nel rendere visibili i significati più profondi della nostra vita, ridefinendo chi e cosa siamo».



Una (ambiziosa) ricetta messa in pratica da Brockman fin dal 1996, dopo un periodo di contatti, incontri e dialoghi con i guru dei “nuovi saperi”, alle frontiere più avanzate di scienza, tecnologia, filosofia, quando ha radunato in una stanza virtuale un centinaio di personaggi del calibro di Murray Gell-Mann, Freeman Dyson, Martin Rees, Niles Eldredge, Paul Davies, John Barrow, Jared Diamond – per citarne solo alcuni – ponendo loro la domanda: “Che domande vi state ponendo?”.



È nato così edge.org e in breve la “stanza” è diventata un appartamento e poi un palazzo dal quale transitano i migliori cervelli che Brockman riesce a intercettare e che volentieri accettano di dialogare tra loro e di mettere in pubblico il contenuto di tali dialoghi. Asse portante dell’iniziativa – e che rappresenta il fil rouge di quella che altrimenti sarebbe (e in parte è) solo una giustapposizione di opinioni stravaganti – sono proprio le domande: quella iniziale ha assunto la forma della “annual question”, che Brockman lancia all’inizio di ogni anno e che nel corso dei mesi trova le risposte, più o meno condivisibili, dei nuovi intellettuali della terza cultura.



Proprio ieri, puntualmente anticipata via Twitter, è stata affidata al web la domanda del 2013: “Di che cosa dovremmo essere preoccupati?”, sottolineando che le risposte devono indicare le “ragioni scientifiche” delle preoccupazioni e confermando la nostra impressione che sul tipo e sul tono di queste domande ci sarebbe da discutere.

Ciò non toglie che alcune risposte aprano effettivamente interessanti spiragli e meritino di essere segnalate. Come quella alla Annual Question 2012 – “Qual è la vostra spiegazione favorita per profondità, eleganza o bellezza?” – data da Gino Segre, Professore di Fisica e Astronomia all’Università di Pennsylvania, uno dei sei italiani tra i 194 “eletti” che hanno dato le risposte a Edge.

Segre ha rinunciato a citare teorie moderne o futuribili ed è risalito ai “classici” mettendo sul podio “il ricorso di Keplero ai solidi platonici per spiegare la distanza relativa dei pianeti dal Sole”. Nel 1595 Giovanni Keplero aveva proposto una soluzione profonda, elegante e bella per risolvere il problema di determinare la distanza dal Sole dei pianeti allora conosciuti. Ha considerato i cinque poliedri regolari – ottaedro, icosaedro, dodecaedro, tetraedro, cubo – all’interno di altrettante sfere e inseriti uno nell’altro, come le scatole cinesi o come le matrioske russe, e ha proposto che la successione dei raggi delle sfere avesse gli stessi rapporti relativi delle distanze planetarie. «Naturalmente – dice Segre – quella soluzione profonda, elegante e bella era anche sbagliata; ma in fondo, come nella celebre battuta di Joe. E. Brown nel film “A qualcuno piace caldo”, nessuno è perfetto».

Il bello è che duemila anni prima, Pitagora aveva già cercato una soluzione del genere mettendo in relazione le distanze tra alcuni punti di una corda che devono essere sistemati in modo da produrre suoni gradevoli all’orecchio: era il concetto di “armonia delle sfere”, che lo stesso Keplero ha posto nel titolo di un suo famoso saggio. E quasi duecento anni dopo Keplero, Johann Bode e Johann Titius hanno trovato, pur senza una spiegazione, una semplice ma efficace formula numerica che permette di calcolare le distanze planetarie. Così, osserva Segre, vediamo che la spiegazione di Keplero non fu né il primo né l’ultimo tentativo di dare una spiegazione ai rapporti dei raggi delle orbita planetarie, «ma la sua idea di collegare la dinamica alla geometria, rimane per me il tentativo più profondo, oltre ad essere il più semplice ed elegante».

 

 

In senso stretto nessuna delle tre proposte è strettamente sbagliata: «sono piuttosto soluzioni a un problema che non esiste, perché ora sappiamo che la posizione dei pianeti è puramente casuale, è un sottoprodotto della dinamica evolutiva del vorticoso disco di polvere che circondava il Sole e che sotto l’azione della gravità ha raggiunto la sua configurazione attuale». La consapevolezza che non c’era nessun problema da risolvere si è accentuata quando il nostro punto di vista si è ampliato e abbiamo scoperto che il nostro sistema planetario è solo uno di un numero quasi illimitato di tali sistemi sparsi in tutto il gran numero di galassie nell’Universo.

A questo punto viene l’aspetto intrigante della risposta di Segre. «Ho pensato a questo perché, insieme a molti dei miei colleghi fisici teorici, ho passato buona parte della mia carriera alla ricerca di una spiegazione per le masse delle cosiddette particelle elementari. Ma forse il motivo per cui la risposta è così elusiva sta in un’idea che sta sempre più guadagnando credito, vale a dire che il nostro Universo visibile è solo un esempio casuale di un numero sostanzialmente infinito di universi, ognuno dei quali contiene quark e leptoni (cioè le particelle elementari, ndr) con masse che assumono valori diversi. Accade ora che in almeno uno di questi universi, i valori permettono che vi sia almeno una stella e un pianeta dove sono venute alla vita creature che si preoccupano di tali problemi».

In altre parole, dice il fisico italiano, un problema ritenevamo centrale può, ancora una volta cessare di esistere nel momento in cui la nostra concezione dell’Universo è cambiata. Se questo è vero, quale visione potremo aspettarci per il futuro? «Spero solo che i nostri discendenti possano avere una comprensione molto più profonda di questi problemi e che sorridano di fronte ai nostri deboli tentativi di fornire una soluzione profonda, elegante e bella di ciò che loro avranno riconosciuto come un problema inesistente».