Nella società odierna, dove la trasmissione e lo scambio d’informazioni riveste un ruolo sempre più determinante (si pensi ad esempio al rapido diffondersi di internet o dei vari social network), una delle sfide tecnologiche più appassionanti è rappresentata dalla necessità di aumentare il flusso di dati che può essere trasmesso da una rete di comunicazione. Nelle reti a fibra ottica, ad esempio, dove l’informazione è codificata e trasmessa mediante segnali luminosi, il flusso d’informazioni (legato alla larghezza di banda) viene massimizzato inviando più messaggi simultaneamente ma utilizzando per ciascun messaggio una lunghezza d’onda leggermente diversa (tecnica nota come “multiplexing a divisione di lunghezza d’onda”). Si stima che ottimizzando questa tecnica, in futuro si potrà trasmettere un flusso massimo di dati pari a circa cento Terabit al secondo (100.000 miliardi di bit al secondo).
È di questi giorni la notizia che un gruppo di ricercatori della Harvard School of Engineering and Applied Science (Usa), capeggiato dal professor Federico Capasso (noto scienziato italiano in odore di Nobel), ha messo a punto una nuova tecnica di rivelazione dei segnali trasmessi da una rete ottica che consentirebbe di superare gli attuali limiti teorici di trasmissione dei dati. Questa nuova tecnica, denominata “multiplexing a divisione spaziale”, sfrutta l’idea di utilizzare come vettore per trasferire l’informazione, un particolare tipo di onda luminosa denominato “vortice ottico”.
Studiati sin dall’inizio degli anni 70, i vortici ottici sono fasci luminosi opportunamente generati in cui la luce, anziché muoversi lungo linee rette, ruota attorno al proprio asse di propagazione dando così luogo a un fronte d’onda di forma elicoidale. Proiettato su uno schermo piano, un vortice ottico assume la forma di un anello luminoso che circonda una regione buia. Poiché i vortici ottici possono avere un numero pressoché infinito di stati (individuati da un parametro noto come “carica topologica”, legato al numero di rotazioni che il fronte d’onda compie in una lunghezza d’onda), essi rappresentano il mezzo ideale per codificare e trasmettere informazioni per via ottica.
Nel dispositivo ideato dal gruppo di Capasso, il segnale ottico viene analizzato mediante un fotorivelatore in grado di discriminare fra vortici di diversa carica topologica. Si tratta di un normale rivelatore ottico usato per misurare l’intensità della luce (un fotodiodo), sulla cui superficie è stato depositato un sottile strato d’oro con impressa l’impronta di un ologramma (una complessa figura d’interferenza formata da una fitta rete di sottilissime frange di spessore nanometrico). Quando un vortice ottico incide sul rivelatore, prima di raggiungere l’area sensibile è costretto a interagire con la sovrastante lamina d’oro. Se la sua carica topologica è tale da eccitare gli elettroni del metallo in modo da generare dei plasmoni superficiali, l’intensità luminosa viene trasmessa dalla pellicola d’oro e quindi può essere misurata dal sottostante rivelatore; diversamente la luce viene bloccata e non può essere rivelata.
I plasmoni superficiali, infatti, sono delle “quasi particelle” risultanti dalla quantizzazione delle oscillazioni collettive degli elettroni liberi che propagano come onde superficiali nel film metallico. Se eccitati, i plasmoni generano a loro volta campi elettromagnetici che danno luogo a onde evanescenti fortemente confinate in prossimità della superficie metallica. A causa della figura d’interferenza incisa sulla lamina d’oro, queste onde evanescenti diventano radiative (vengono cioè diffratte dal reticolo olografico) e possono così essere intercettate dal sottostante rivelatore. È evidente che modificando opportunamente la figura d’interferenza che costituisce il reticolo olografico si possono discriminare vortici ottici con diversa carica topologica e quindi realizzare matrici di rivelatori basati su questo principio che consentono la trasmissione di dati su un elevato numero di canali.