Tutte le volte che sento parlare di materia oscura, molto prima delle reminiscenze di fisica, che tardano sempre ad affiorare, mi appare davanti agli occhi l’immagine del monolite di 2001: Odissea nello spazio. Qualcosa di sconosciuto e difficilmente conoscibile che, però, ha effetti potenti su tutta la galassia. 



La mia immaginazione, cresciuta con Verne e Asimov, non si allontana più di tanto da quello che è la materia oscura del genoma, tolto il trascurabile dettaglio che la materia oscura rappresenta il 95% del genoma. Se ci penso mi sale un leggero imbarazzo da cui fa capolino una punta di orgoglio: mi piace essere circondata dall’aura di mistero, se non fosse misteriosa anche per me, forse, mi sentirei più a mio agio e diventerei un cavaliere jedi, ma per il momento temo di dovermi adeguare.



Il problema non è solo mio, da sempre schiere di biologi, fisici, chimici e medici provano a capire qualcosa della porzione più complessa, ma influente, anche se non si capisce in che modo, del nostro organismo. Il lavoro non è assolutamente semplice e, a volte, risulta anche decisamente frustrante. Quando nel 2000 è stato portato a termine il titanico Progetto Genoma Umano, una vibrante fiamma di speranza aveva acceso gli animi di giovani scienziati: finalmente avevano la chiave di lettura per interpretare il codice  del DNA e si pensava che questo avrebbe portato una maggior chiarezza al problema uomo: ogni gene contiene l’informazione per un RNA che permette la produzione di una proteina. In pochissimo tempo si è capito che la chiave di lettura non era sufficiente per comprendere le informazioni di tutto il codice, in realtà basta solo per un 5%. Questo non ha fermato i ricercatori che, senza perdere la passione ma dosando l’entusiasmo, hanno proseguito nel cercare di sbrogliare la matassa, raggiungendo dei risultati importanti.



Recentemente due studiosi, Franklin B. Pugh e Bryan. J. Venters, hanno sciolto un nodo strategico del groviglio e l’hanno raccontato su Nature. Per indagare sull’RNA non codificante è stato necessario capire cosa andare a cercare: molti RNA vengono degradati in modo estremamente rapido all’interno della cellula. Un’idea geniale ha permesso uno studio di questi RNA: non essendo possibile né lavorare sul prodotto, l’RNA non codificante non dà proteine, né sul messaggero intermedio, si sono andati a cercare, lungo il cromosoma, i siti che permettevano l’inizio della trascrizione del genoma. Questi siti rappresentano dei veri e macchinari per l’inizio del processo e in ogni cromosoma ce ne sono 160.000; il numero non ci fornisce nessuna informazione interessante se non sapessimo che i geni sono 30.000 e non sono sempre tutti attivi. 

A questo punto sono due le considerazioni che ci lasciano senza fiato: la prima è la drammatica sproporzione che c’è tra il genoma che produce gli “ingranaggi molecolari” che ci fanno vivere e quello che, sembra, non produca nulla di utile. La seconda pone, definitivamente, un punto fermo sulla disputa che era nata con alcuni studiosi che chiamavano il DNA non codificante “DNA spazzatura”. Questa ipotesi risulta poco credibile visto che la porzione di genoma non codificante viene regolata con gli stessi fini meccanismi che guidano i geni codificanti. Inoltre, è ormai noto da tempo che il genoma non codificante ha un ruolo chiave nelle malattie genetiche. 

Questo ci rilancia nello studio con una maggiore consapevolezza lasciando aperte infinite possibilità. Non possiamo più accontentarci di catalogare come spazzatura quello che non risponde al nostro schema. Lo studio del DNA continua a porci tutti sul baratro dell’ignoto che agisce senza sottomettersi al nostro schema ma ci fornisce nuovi spunti, come un caleidoscopio dalle infinite forme.