Immaginate di lanciare un sasso in aria con le vostre braccia: questo ricadrà inevitabilmente a terra. Sforziamoci di lanciarlo più forte: andrà più in alto, ci metterà più tempo a tornare, ma ricadrà inevitabilmente a terra. Se invece potessimo avere nelle mani, diciamo, la potenza dei motori dello Space Shuttle, il nostro sassolino potrebbe andare in orbita, magari raggiungere la Luna. A patto di lanciare abbastanza veloce un oggetto, questo può sfuggire alla forza di gravità della Terra. Immaginiamo ora una Terra più grande, diciamo il doppio più pesante: servirà potenziare i motori dello Space Shuttle, ma ancora potremo forse mandare satelliti in orbita e raggiungere la Luna. Se la Terra diventasse sempre più pesante, occorrerebbe lanciare oggetti a velocità sempre maggiore affinché non ricadano giù. C’è però un punto di non ritorno: la luce. Se la velocità necessaria per sfuggire all’attrazione gravitazionale diventa maggiore della velocità della luce, ecco un buco nero. Un corpo così compatto che neanche la luce può scappare. Cosa può andare più veloce della luce? Niente, appunto: nero.



Un buco nero è una zona di spaziotempo, disconnessa dal resto dell’Universo: perché tale zona possa comunicare con noi (ci dica cosa c’è dentro, ad esempio), le occorrerebbe lanciare un segnale (come il nostro sasso) più veloce della luce. Eppure, possiamo imparare molto guardando i buchi neri dal di fuori; ad esempio osservando stelle o gas in orbita attorno ad essi. Il punto più sorprendente di tutto ciò è l’estrema semplicità di questi oggetti. Bastano due numeri per descrivere un buco nero. Un buco nero ha solo due caratteristiche: quanto pesa, e quanto veloce ruota. Niente in natura è così semplice: due numeri, e ho detto tutto su quell’oggetto. Un recente studio pubblicato su Physical Review Letters (“Black Holes with Surrounding Matter in Scalar-Tensor Theories”) riapre il dibattito sulla semplicità o meno dei buchi neri.



Ho qui davanti un bicchiere d’acqua, che in confronto è un oggetto infinitamente più complicato. Cercate di indovinare com’è fatto il mio bicchiere: può essere grande, piccolo, rotondo, pieno, vuoto, un bicchierino da whisky o un boccale bavarese, pulito o ancora da lavare; vale lo stesso per tutto quello che abbiamo intorno. Un buco nero invece ha solo due caratteristiche: pesa e ruota. Comprimere la materia, fino a renderla così densa che neanche la luce può scappare, ciò elimina inevitabilmente anche tutte le sue caratteristiche accessorie, rendendola più semplice. “Un buco nero non ha capelli”, non ha cioè niente di accessorio, diceva John A. Wheeler enunciando per la prima volta questo risultato nei primi anni ‘70. La nostra esperienza sembra però dire il contrario. Ad esempio se aumentiamo il numero di libri su una libreria, aggiungiamo personaggi, storie, informazioni, confusione, dettagli.



Allo stesso modo, immaginiamo di comprimere sempre più della materia, la quale diventerà più densa, calda, ed in generale complessa. A un certo punto invece, tutto diventa estremamente semplice. Come può la materia sbarazzarsi di tutti i dettagli inutili? Come può un oggetto “perdere i capelli” prima di diventare un buco nero? Ancora, tutto avviene con la gravità. Così come una barca in moto rovina lo specchio del lago lasciando una scia, una massa in moto lascia una scia in gravità dietro di sé. Alla formazione di un buco nero, tutti i capelli (i dettagli di troppo) si perdono in queste onde di gravità emesse, lasciando solamente un oggetto “pelato”. Questi preziosi segnali, contengono tutto il dettaglio e l’informazione che ha portato la materia a formare il buco nero, una vera e propria sinfonia che aspetta solo di essere ascoltata. Una volta terminata la sinfonia, rimane solo l’oggetto semplice.

Tale semplicità, constatata nei buchi neri osservati nel cielo, faceva sobbalzare l’astrofisico pakistano Subrahmanyan Chandrasekhar, Premio Nobel per la Fisica 1983: «L’esperienza più straordinaria della mia intera carriera scientifica, che dura da più di quarantacinque anni, è stata quella di rendermi conto che la soluzione esatta delle equazioni della relatività generale di Einstein, trovata dal matematico neozelandese Roy Kerr, fornisce la rappresentazione assolutamente esatta degli innumerevoli giganteschi buchi neri che popolano l’universo. Questo “fremere davanti al bello”, questo fatto incredibile che una scoperta motivata dalla ricerca del bello in matematica abbia trovato la sua replica esatta in Natura, mi induce ad affermare che la bellezza è ciò a cui la mente umana si mostra maggiormente sensibile dal più profondo di sé» (Verità e Bellezza, 1987). È questa semplicità, è il riconoscere che di questa semplicità è fatto il mondo, ciò che muove lo scienziato. L’intuizione cioè, che l’estrema ricchezza di ciò che abbiamo davanti possa nascondere una unità semplice, come una liscia perla tonda sul fondo del mare.