All’inizio di questa settimana The Lancet, la più nota rivista medica, ha pubblicato tre articoli, dai titoli molto accattivanti, riguardanti lo stato dell’arte e le prospettive future dell’epidemia di HIV/AIDS.
Il primo, dal titolo “Achieving an AIDS-free world” (Ottenere la liberazione del mondo dall’AIDS), scritto da Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, settore dell’NIH statunitense, è il più ottimistico e ammiccante. Parla dei successi ottenuti nel fornire la terapia ai malati (9,7 milioni di persone trattate su 35,3 milioni di infetti nel mondo, prevalentemente in Africa), della riduzione della probabilità di contagio generata dal trattamento, della riduzione della trasmissione dell’infezione dalle mamme ai bambini con la gravidanza, prospettando per la prima volta l’ipotesi di un controllo dell’epidemia ed eventualmente di una fine del problema.
L’articolo mescola tuttavia dati epidemiologici certamente positivi con altri, di ricerca, in cui le certezze sono tuttora molto lontane: una cura “eradicante” o “funzionale” (in cui il paziente non si libererebbe dal virus ma sarebbe in grado di controllarlo senza terapia) e un vaccino efficace sono campi di vivace ricerca, ma per ora non forieri di indicazioni percorribili.
Il secondo, “The end of AIDS: HIV infection as a chronic disease” (La fine dell’AIDS: l’infezione da HIV diventa una malattia cronica), ad opera di uno dei più brillanti ricercatori californiani, Steven Deeks, entra invece molto più realisticamente nel dettaglio e nella problematica e merita qualche commento in più. Al termine dell’introduzione infatti si spiega compiutamente il titolo: «… sebbene l’AIDS, come sindrome, diminuirà in frequenza nei soggetti identificati tempestivamente e trattati adeguatamente, per trasformare ulteriormente la malattia da HIV sono necessarie soluzioni per tre problemi apparentemente distinti: l’infiammazione associata all’infezione da HIV, i sistemi sanitari sovraccarichi, e infine la persistenza dell’infezione virale».
Fra le varie analisi, Deeks riflette sul fatto che i Paesi in via di sviluppo, e in particolare quelli dell’Africa sub-sahariana, nonostante lo sforzo per contenere l’epidemia, ora si trovano ad affrontare una condizione di cronicizzazione che, sebbene meno drammatica dell’AIDS, comporta più tumori, più diabete, più ipertensione, più infarti; insomma, curare l’infezione da HIV significa prendersi carico di soggetti che invecchiano precocemente e che quindi gravano maggiormente sul sistema sanitario.
Questo è soprattutto vero per i soggetti in cui l’infezione è riconosciuta e diagnosticata tardivamente, che hanno quindi maggiori scorte di virus nel corpo e una condizione di infiammazione cronica che predispone a svariate patologie.
Molto diversa è invece la condizione dei soggetti riconosciuti e trattati precocemente, per i quali negli ultimi anni è stato notevolmente anticipato il momento in cui iniziare la terapia; ed è stato persino introdotto il criterio della contagiosità per quei soggetti che per stile di vita rischiano di contagiare sessualmente altre persone. Anche qui, tuttavia, la tossicità dei farmaci, nel lungo periodo, minaccia comunque la salute dei pazienti e richiede un monitoraggio che per molti sistemi sanitari è difficilmente sostenibile.
Deeks suggerisce la decentralizzazione delle cure croniche, da attuarsi sul territorio con adeguata formazione dei centri medici, per ridurre i costi, e sottolinea l’assoluta necessità di monitorare la quantità di virus nel sangue (pratica normale da noi, ma limitata dai costi in Africa). La persistenza dell’infezione da HIV porterà all’invecchiamento della popolazione africana e verosimilmente a un aumentato rischio di tubercolosi. Inoltre, anche nei Paesi industrializzati è ben definita la “treatment cascade”, ossia la quota di soggetti probabilmente HIV positivi, soggetti diagnosticati, agganciati al sistema sanitario, effettivamente seguiti e trattati con soppressione virologica ottimale (meno di 50 copie di HIV RNA/mL di plasma). Negli Usa, ad esempio, su 100 soggetti HIV positivi solo 28 si trovano in condizioni di soppressione ottimale, mentre gli altri si sono arrestati ai passaggi precedenti.
Ciò significa che anche laddove le risorse ci sono l’introduzione della terapia non è attualmente sufficiente per approssimarsi all’eradicazione. Deeks analizza quindi per sommi capi i passi fatti verso l’eradicazione e i risultati ottenuti trattando molto precocemente i pazienti (di cui, tuttavia, è raro cogliere il momento esatto del contagio). Nel complesso l’articolo è un’analisi molto equilibrata e utile per riflettere sulla sostenibilità della lotta all’infezione da HIV e sul suo impatto negli anni a venire.
Il terzo articolo “Antiretroviral treatment of HIV-1 prevents transmission of HIV-1: where do we go from here” (La terapia antiretrovirale previene la trasmissione di HIV-1: possibili sviluppi), ad opera di un gruppo di ricercatori dell’Università della Carolina del Nord, parte dalla constatazione che in 11 su 13 studi la terapia antiretrovirale riduceva sostanzialmente la trasmissione dell’infezione al partner. In particolare un ampio studio randomizzato ha dimostrato una riduzione della trasmissibilità del 96,4%. Tuttavia numerosi problemi restano aperti, quali: l’individuazione precoce dei soggetti infetti per poter iniziare in tempo il trattamento; l’aderenza dei pazienti alla terapia, che può dar luogo a ceppi resistenti ai farmaci e trasmissibili; e la mancanza di dati, in questi studi, sulla popolazione omosessuale e tossicodipendente.
In particolare gli autori sottolineano la mancata riduzione o addirittura la crescita delle nuove infezioni in comunità omosessuali in cui la terapia antiretrovirale è accessibile e diffusa, a dimostrazione che l’ottimismo in questo quadro potrebbe essere superficialità. Gli autori comunque spingono sulla necessità di sviluppare ulteriormente la ricerca nel campo della prevenzione farmacologica.
Complessivamente occorre dire che molti e importanti passi avanti sono stati compiuti, che si è riusciti a fornire farmaci costosi a pazienti e a sistemi sanitari che non sarebbero mai stati in grado di acquistarli (anche se la proporzione è ancora inferiore a un terzo del totale), che soprattutto il secondo articolo cerca di entrare nel merito di come affrontare i problemi futuri.
Tuttavia leggendo questi articoli sembra scomparire il soggetto: l’uomo, con la sua responsabilità, con la sua capacità di discernere il bene dal male, con la sua possibilità di decidere di non esporre al contagio le persone che ha intorno. Questi aspetti sono generalmente scotomizzati come tabù, come se la responsabilizzazione fosse una limitazione della libertà personale. La sensazione è che, in realtà, gli articoli documentino l’immenso sforzo ma anche il fallimento di una politica che cerca di risolvere i problemi dell’uomo senza coinvolgerlo in prima persona.