Dopo la pubblicazione del celebre volume del MIT “I limiti dello sviluppo” del 1972, a cura del Club di Roma, che metteva in guardia dal dimenticare la ben nota equazione di Malthus del 1798, si inizia a dialogare sulle risorse della Terra in termini di preoccupazione per la vita futura degli abitanti del Pianeta, in relazione alla disponibilità di risorse esistenti o incrementabili.



La curva esponenziale della crescita della popolazione nei Paesi in via di sviluppo e sottosviluppati a confronto con la linearità della produzione delle risorse alimentari rappresenta, di fatto ancora oggi, la sfida che il mondo occidentale avverte di dover affrontare secondo tecniche operative e livelli di progettualità improntati non più alla logica dello sviluppo inteso come accumulo di ricchezza, ma sulla base di una rinnovata razionalità; che, in qualche misura, non è solo afferente alla dimensione umana, ma compenetra la natura stessa nella sua ontologia.



L’occasione della diffusione di tale volume, tuttavia, rende evidente la mancata capacità di dialogo dell’essere umano con la natura, sia a livello politico, che nell’ambito del mondo scientifico, capace, quest’ultimo, di approcciarsi in modo sistematico ad alcuni eventi dell’ecosistema, ma spesso inadeguato ad esprimere una concezione culturale attenta alla globalità dell’esistente.

Soltanto vent’anni dopo la pubblicazione del volume citato, la presa di coscienza di una consapevolezza globale, strutturata attraverso le Convenzioni Quadro delle Nazioni Unite sull’ambiente, riesce ad elaborare una metodologia di analisi e di interventi secondo una scala di osservazione planetaria.



Si superano enormi criticità iniziali e ci si avvale di iniziative diplomatiche nelle relazioni internazionali, difficilmente attuabili su tematiche di altra natura: il clima, la biodiversità e la lotta alla desertificazione costituiscono, di fatto, l’elemento di coesione di quasi duecento Paesi del Pianeta, tutti consapevoli che l’affinamento comune di tecniche di intervento per rendere più fruibile la Terra rappresenti una modalità pacifica di dialogo, apparentemente al di là della politica, della religione e delle ideologie più ambiziose.

In altri termini sembra diventare sempre più urgente la necessità di superare la visione del mondo caratterizzata dall’antropocentrismo, a favore di una centralità più evidente e in fase di progressiva comprensione, che consiste nella natura stessa e nelle sue regole vitali, nei suoi processi e nella sua consistenza strutturale. È la fiducia incondizionata nella scienza e nella tecnologia a suggerire o, addirittura, ad imporre da un lato l’antropocentrismo, l’essere umano come grattacielo del sapere, e dall’altro l’impassibile e freddo governo nella competizione sull’uso delle risorse.

C’è qualcosa di malato in questo alimentarsi di tensioni, reali e programmate, per la vita futura degli abitanti della Terra; c’è qualcosa di logorante nel rilevare  costantemente i limiti delle risorse in un Pianeta fisicamente limitato. Si rasenta ritmicamente lo sconforto, si percorrono itinerari alternativi alla concezione classica delle regole economiche del capitalismo, attraverso l’induzione al fattore primario dell’essere umano: la ricerca della prosperità e della felicità.

Anche perché l’oggetto della preoccupazione, al di là delle formali apparenze, non è certo la sussistenza della totalità degli abitanti della Terra; anzi, la totalità diventa uno strumento di giustificazione di iniziative a favore di una minoranza “ricca” di popolazione, tutte univocamente concorrenti alla riduzione del numero degli abitanti, come accade nella disumana pratica dell’aborto.

Soprattutto non si vuole riconoscere che i popoli più sviluppati della Terra, il 20% degli attuali sette miliardi, consumano l’80% delle risorse disponibili e non si vuole assimilare il concetto che la logica delle democrazie liberiste si accompagna ad un vero e proprio crimine contro quella parte di umanità che tenta di sopravvivere alla povertà, alla miseria, alla fame, alle malattie, all’apatia, all’ignoranza, nella indifferenza agghiacciante dei popoli ricchi.

 

 

 

È assodato che nel cuore dell’uomo abiti la tentazione di impadronirsi di ciò che Dio gli dona, senza preoccuparsi di identificare l’origine stessa del dono ricevuto, mentre, per altri versi, si assiste ad un eccesso di assunzione di responsabilità nei confronti di fenomeni che sono sempre avvenuti sulla Terra e che, in alcuni casi, subiscono delle accelerazioni da parte dell’intervento dell’uomo, come nel caso di frane o di alluvioni, dove l’azione di difesa e di protezione, ancora oggi, appare estremamente improbabile.

Per questo motivo, come afferma Tiziana Banini (Il cerchio e la linea, 2010), occorre una riabilitazione metafisica della natura attraverso la fisica, a cui tanto i razionalisti che gli empiristi non avevano pensato, ricordando che “L’homme est la nature prenant conscience d’elle-même” (l’uomo è la natura che prende coscienza di sé), come scriveva il geografo anarchico Elisée Reclus nel 1890.

La tutela dell’ambiente, dunque, passa, nell’attuale periodo storico, attraverso la formulazione del concetto di sviluppo sostenibile, che vede la coesistenza dell’integrità ecosistemica insieme all’efficienza economica e all’equità sociale: “uno sviluppo che risponda alle esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie” (Commissione Bruntland, 1987).

Le tre componenti dello sviluppo sostenibile (economica, sociale e ambientale) devono essere affrontate in maniera equilibrata, prima di tutto  a livello politico. La strategia per lo sviluppo sostenibile, adottata nel 2001 e riveduta nel 2005, è completata, tra l’altro, dal principio dell’integrazione della problematica ambientale nelle politiche europee aventi un impatto sull’ambiente. Un po’ alla volta si percepisce che la tutela ambientale debba prevedere una revisione molto accurata dei criteri d’uso delle risorse della terra, sia per quelle rinnovabili e, a maggior ragione, per quelle non rinnovabili.

È soprattutto su questo versante che la ricerca scientifica in ambito ecosistemico deve abbandonare una sorta di presunzione innata nei confronti della comprensione della realtà ed assumere, invece, un atteggiamento umile di fronte allo splendore del creato, che è la vera centralità dell’intero Universo.