Una stella riesce a contrastare l’enorme forza di gravità che tenderebbe a farla collassare su se stessa solo grazie alla grande energia prodotta dalle reazioni di fusione nucleare che avvengono al suo interno. Se però questa energia viene prodotta sotto forma di radiazione di altissima energia, i fotoni che la costituiscono si possono trasformare in coppie di particelle di materia e anti-materia (nello specifico: elettroni e positroni), che però non sono più in grado di fornire una pressione sufficiente per impedire alla stella di collassare e la fanno quindi esplodere come una supernova. La teoria prevede che questo meccanismo si inneschi in stelle particolarmente massicce, oltre cento volte più pesanti del nostro Sole, e dovrebbero portare a un particolare tipo di esplosione stellare, straordinariamente brillante, chiamato supernova a instabilità di coppia. Vista l’eccezionalità di stelle così grandi, questo fenomeno è estremamente raro, ma alcune supernove scoperte di recente erano state interpretate proprio in questo modo.



Un nuovo studio, appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature e che vede la partecipazione di ricercatori italiani dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), mette però in luce come alcune di queste supernove abbiano caratteristiche in contrasto con le previsioni della teoria delle supernove a instabilità di coppia. In particolare, per la prima volta è stato possibile osservare il tempo impiegato da queste supernove ad accendersi, ovvero a raggiungere il massimo della loro luminosità. Una supernova a instabilità di coppia dovrebbe impiegarci circa un anno, mentre quelle osservate ci hanno messo solo un paio di mesi, come ci si aspetterebbe da una supernova prodotta da una stella solo alcune decine di volte più pesante del Sole.



Gli autori dell’articolo quindi propongono una spiegazione alternativa, secondo la quale queste supernove non devono la loro particolarità al meccanismo che ne ha innescato l’esplosione, ma al piccolo oggetto compatto che rimane al posto della stella dopo l’esplosione stessa. In alcuni casi, una supernova può lasciare dietro di sé un buco nero, in altri una stella di neutroni, che è l’oggetto su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione.

Una stella di neutroni è una sfera di appena una decina di chilometri di raggio, che però pesa di più di tutto il nostro Sistema Solare. È talmente densa che un dado da gioco fatto con la materia di cui è costituita una stella di neutroni peserebbe più dell’intera popolazione mondiale. Oltre alla densità, una stella di neutroni esalta fino a raggiungere valori strabilianti anche altre caratteristiche della stella da cui nasce. Per esempio, la lenta rotazione della stella intorno al proprio asse prima di esplodere, diventa una rotazione vorticosa che può raggiungere le centinaia di rotazioni al secondo per la stella di neutroni appena nata. Questa rapida rotazione è resa possibile proprio dall’enorme densità dell’oggetto, che altrimenti si sfalderebbe sotto l’azione della forza centrifuga. Infine, anche il campo magnetico della stella d’origine, che tipicamente ha intensità non di molto superiori a quella del campo terrestre – quello che orienta gli aghi delle nostre bussole – raggiunge in una stella di neutroni valori talmente elevati da non aver uguali in nessun altro luogo nell’Universo.



Ma se noi prendiamo un potente magnete e lo facciamo girare velocemente, produciamo energia, proprio come avviene nelle dinamo che alimentano i fanali delle biciclette o nei caricabatteria a manovella che “ci salvano” se il cellulare è scarico. E sarebbe proprio questo tipo di energia ad alimentare le potenti supernove che erano prima state attribuite alla formazione di coppie elettrone-positrone. Per essere più precisi, gli autori della ricerca apparsa su Nature chiamano in causa le stelle di neutroni più magnetiche che si conoscano, le cosiddette magnetar, il cui nome deriva proprio dalla contrazione delle parole inglesi“magnetic star”. Per produrre una quantità sufficiente di energia è infatti necessario avere una stella di neutroni che completi centinaia di rotazioni su se stessa in appena un secondo e che abbia un capo magnetico centinaia di volte più intenso di quello posseduto dalla maggioranza delle stelle di neutroni che conosciamo. Queste caratteristiche sono perfettamente compatibili con quelle previste per una magnetarappena nata.

 

L’esistenza delle magnetar venne ipotizzata nel 1992 per spiegare il comportamento di alcune particolari sorgenti celesti di raggi X e gamma, denominati Soft Gamma-ray Repeater, o SGR. Negli ultimi anni, diverse evidenze osservative hanno dato credito a questa ipotesi e le magnetar hanno assunto un ruolo sempre più importante nell’interpretazione di diversi fenomeni astrofisici, che spaziano da alcune particolari pulsar ai raggi X fino alle più grandi esplosioni cosmiche che conosciamo, i Gamma-ray Burst.

Una tappa fondamentale nel consolidamento del modello delle magnetar è giunta solo pochi mesi fa, quando, insieme a un gruppo di ricercatori italiani, siamo riusciti per la prima volta a misurare in maniera diretta il campo magnetico sulla superficie di un SGR. Questa ricerca è stata pubblicata anch’essa suNature e ci ha permesso di individuare sulla superficie di questo oggetto una regione con un campo magnetico che raggiunge un valore milioni di miliardi di volte superiore a quello del campo terrestre: proprio ciò che era previsto per una magnetar e che serve per alimentare le supernove più brillanti che conosciamo.