Anche i processi di ricerca sono sottoposti a meccanismi di innovazione. E non c’è bisogno di rivolgere il pensiero ai mastodontici apparati di LHC al Cern o alle scintillanti soluzioni trovate all’Esa o alla Nasa per rendersene conto. A volte basta mettere insieme tecnologie che già esistono e farle lavorare in modo da rispondere a domande ancora insolute. Questa operazione di collegamento spesso però capita quasi per caso.



Come è accaduto poche settimane fa in Germania, presso il Dipartimento di Radiologia del Charité Campus Mitte a Berlino: il dottor Ahi Sema Issever ha ricevuto la richiesta del Museo di Storia Naturale di Berlino di operare una scansione tomografica computerizzata di un blocco di gesso contenente un fossile di dinosauro. La storia di questo blocco è simile a quella di altri custoditi nel museo di Berlino: a causa di un bombardamento avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale, il museo subì gravi danni e vide le sue collezioni rovinare nel disordine, sepolte sotto i detriti. Per proteggere i pezzi rinvenuti, i paleontologi decisero di utilizzare la pratica più comune e diffusa: incastonare i resti fossili in blocchi di gesso che li avrebbero serbati senza danno per molti anni.



A seguito di questa opera di protezione, i diversi pezzi vennero catalogati sulla base delle vecchie conoscenze. Un pezzo in particolare -quello poi analizzato da Issever- era catalogato come proveniente da scavi condotti in Africa agli inizi del ‘900. A valle del lavoro di Issever si è potuto stabilire con certezza che periodo e provenienza di scavo del pezzo erano errati: si tratta di un pezzo trovato a Halbertsadt, in Germania, fra il 1910 e il 1927.

Fin qui nulla fa pensare ad alcun tipo di innovazione nei modi di ricerca; e infatti è così, poiché la CT (Computed Tomography) è già utilizzata in alcuni casi in paleontologia, per evitare di danneggiare i pezzi ritrovati cercando di estrarli dagli involucri rocciosi dove vengono ritrovati. Il vero salto lo ha compiuto non il gruppo dei paleontologi del Museo, ma il radiologo Issever.



Il Charité Campus ha iniziato da qualche tempo a sviluppare un interesse per la stampa 3D, per permettere di intervenire in alcuni casi di chirurgia della spalla. La stampa 3D permette ricostruzioni accurate di oggetti e corpi di forme le più svariate; e così Issever ha chiesto ai suoi ricercatori di prendere i risultati della CT e utilizzarli per riprodurre il pezzo incastonato nel gesso. Il risultato ha consentito di ottenere il pezzo contenuto nel blocco sotto analisi senza aprire il blocco medesimo.

È proprio questo il contenuto innovativo: l’unione delle due tecniche è stata realizzata per la prima volta e questo apre prospettive interessantissime. Fino a oggi, infatti, per motivi di prevenzione e sicurezza, i pezzi di paleontologia sono stati conservati nei vari musei e chi avesse voluto studiarli doveva recarsi là a esaminarli di persona. Ora si apre una nuova possibilità: conservare perfettamente i pezzi e nello stesso tempo farne repliche a distanza senza che il processo di replica possa minimamente rovinarli.

È una rivoluzione, come dice Issever: «se qualcuno in Australia fa della ricerca su un certo dinosauro e in Canada c’è un altro ricercatore che si interessa dello stesso soggetto e si vogliono scambiare i fossili, non dovranno più spedirsi i pezzi originali… Potrebbero al massimo spedirsi un CD. I dati digitali e, ultimamente, le riproduzioni delle stampe 3D possono essere scambiate facilmente e altri gruppi di ricerca potrebbero a questo punto ottenere importanti accessi a informazioni relative a fossili rari, che altrimenti resterebbero limitate. Proprio come il processo di stampa inventato da Gutenberg aprì il mondo dei libri al pubblico, così i dataset e le stampe 3D dei fossili possono ora essere distribuiti in modo più ampio, pur proteggendo i fossili originali».

Come sempre accade quando un processo innovativo riesce a risolvere un problema, la soluzione è talmente semplice che viene da domandarsi come mai non ci avessero pensato prima.