La nota rivista Scientific American ha recentemente pubblicato un articolo firmato da Ferris Jabr dal titolo alquanto provocativo “Perché la vita, in realtà, non esiste”. L’autore insiste su un aspetto ben noto agli studiosi del settore a riguardo del fenomeno “vita”: la persistente difficoltà a definire rigorosamente il confine tra mondo vivente e non-vivente. In effetti, nonostante i ripetuti tentativi di biologi e naturalisti, e anche degli scienziati dell’Esa e della Nasa alla ricerca di vita extraterrestre, nessuno finora è riuscito a specificare in modo soddisfacente le proprietà che discriminano ciò che è animato da ciò che non lo è. Per ogni definizione si trova un contro-esempio, un’eccezione che scombina le carte. La difficoltà sembra essersi acuita recentemente: man mano che i biologi molecolari scendono nel dettaglio dei processi elementari che supportano il funzionamento degli organismi viventi il confine tra vita e non-vita sembra sfilacciarsi, facendo presagire che tracciare una linea netta a livello biofisico forse rimarrà per sempre impossibile.



La conclusione un po’ affrettata del giovane giornalista di Scientific American è che, quindi, ciò che chiamiamo vita è in realtà un concetto astratto, “inventato da noi”. Parlare di organismo vivente altro non sarebbe che una nostra rappresentazione mentale, fondamentalmente illusoria, che noi associamo ai sistemi particolarmente complessi. Ed è a causa del nostro inguaribile antropocentrismo, “della nostra superbia e del nostro narcisismo”, che diamo importanza al concetto di vita essendone noi i detentori. Insomma, poiché non riusciamo a definire la vita, la vita non esiste. 



C’è un’importante debolezza nell’argomento di Jabr. La sua tacita assunzione è che l’unico elemento in base al quale possiamo definire ciò che è reale e ciò che non lo è sono i meccanismi elementari che sottostanno al tessuto materiale delle cose. Questo lo conduce a negare un dato evidente (nulla è più immediatamente evidente del fenomeno della vita!) proprio perché la vita sembra sfuggire a una definizione in termini fisico-chimici. Del resto possiamo star sicuri che i mattoni elementari della “materia vivente” sono “inanimati”. Se scomponessimo il nostro corpo nei suoi ultimi costituenti materiali troveremmo protoni, neutroni ed elettroni, particelle identiche a quelle che fanno le rocce, il mare, le stelle. Ma possiamo per questo negare che la vita c’è, e che la vita è un fenomeno assolutamente originale e significativo? Sarebbe come dire che siccome la pietà di Michelangelo analizzata al microscopio si rivela costituita da nient’altro che particelle di marmo, essa altro non è che un blocco di marmo. Anziché appoggiarsi all’evidenza che la vita c’è (e la pietà di Michelangelo è un capolavoro), e mettere in discussione l’assunzione di partenza, Jabr preferisce sottovalutare l’evidenza. E questa non è una buona idea, perché equivale – fra l’altro – a mettere in dubbio un cardine fondativo della scienza sperimentale. 



Ma la provocazione dell’articolo va colta anche per altri aspetti interessanti che contiene. Come mai la definizione di vita, pur nel suo significato puramente biologico, risulta tanto sfuggente? È interessante notare che una simile difficoltà si presenta nelle scienze naturali ogni volta che ci si avvicina a qualcosa di veramente fondamentale. Proviamo ad esempio a definire compiutamente realtà come “tempo”, oppure “universo”, o “legge naturale”. Sono nozioni tanto fondamentali quanto ineffabili. Il fatto è che ogni definizione deve necessariamente appoggiarsi su una precedente nozione in qualche modo commensurabile con ciò che si intende definire. Così ad esempio è arduo definire il tempo in termini puramente atemporali, ed è forse impossibile definire la vita esclusivamente in termini di qualcosa di non-vivo. Forse allora la difficoltà a definire la vita in termini chimico-fisici suggerisce, non che la vita non esiste, ma che essa è un fenomeno irriducibile ai suoi presupposti materiali pur appoggiandosi interamente su di essi. 

Quanto all’antropocentrismo paventato da Jabr, è indiscutibile che il fascino che noi umani percepiamo per il fenomeno “vita” nasce dal fatto che ci riconosciamo in essa, in particolare nel suo livello cosciente. Infatti, come la materia è presupposto della vita, così la vita biologica è presupposto dell’altra irriducibile proprietà della natura che ci caratterizza: la coscienza. Sì, noi siamo esseri viventi e autocoscienti. E questo ci interessa. Non è una cosa di cui vergognarsi. Del resto, qualunque nostro tentativo di descrivere il mondo, dagli atomi al Dna, avviene inevitabilmente dall’interno della nostra esperienza di tale vita e di tale autocoscienza. Così, mentre abbiamo un’esperienza immediata di che cosa significhi essere un “vivente”, in quanto la sperimentiamo direttamente su noi stessi, non altrettanto possiamo dire di ciò che è “inanimato”. Paradossalmente dunque, ribaltando il discorso di Jabr, l’enigma più fitto per noi potrebbe essere non quello di definire la vita, ma la non-vita, la realtà inanimata. 

La vita ci interessa perché ci riguarda, non c’è dubbio. E in quanto esseri autocoscienti siamo curiosi del mondo e tesi a esplorare la natura, senza sosta; siamo capaci di creatività espressiva; sperimentiamo la speranza, il dolore, la libertà; soffriamo per l’ingiustizia, siamo insoddisfatti e inquieti; cerchiamo incessantemente la felicità, il senso esauriente delle cose. Tutto questo è la nostra vita umana, che non ci sarebbe senza la nostra vita biologica. Soprattutto per questo ci affascina la vita, qualunque vita; e gli scienziati la vanno a cercare in ogni angolo, magari anche fuori dal nostro pianeta; per questo ci strugge il tentar di capire come i primi micro-organismi si siano formati, partendo da quei mattoni inanimati, e vogliamo vedere meglio come un tale miracolo di eleganza e complessità e fecondità sia mai stato e sia tuttora possibile. 

E allora scopriamo che tutta la storia dell’universo partecipa attivamente a questo prodigio. Non sarebbe possibile un solo capello del nostro capo senza l’intera struttura dell’universo, la quale – dalla scala cosmologica a quella stellare a quella planetaria – contribuisce a realizzare condizioni del tutto speciali in cui la vita può sussistere. Ha ragione Jabr, “ciò che chiamiamo vita è impossibile senza quella realtà che consideriamo inanimata, e inseparabile da essa”. È talmente vero che ciò non vale solo, come lui sostiene, per il nostro pianeta: tutto il cosmo partecipa al vivente. Ma questo non è un indebolimento del concetto di vita, al contrario, ne è l’esaltazione totale. 

Così la speranza che agita la nostra vita in qualche modo rappresenta il tremito di tutta la creazione, di ogni vivente, di tutta la materia dell’universo. La speranza cerca il cuore della vita, un cuore che da sé non si sa dare. Che tenerezza allora considerare che il Mistero stesso, l’autore della vita e di tutto ciò che esiste, è diventato un singolo essere vivente, un uomo come noi, per accompagnare la vita, la nostra vita di uomini.