Nel mese di settembre 2006 mi trovavo a Bamako per una Conferenza Internazionale intitolata: “Jeunesse et lutte  contre la desertification”. Ero in quel Paese in qualità di Presidente del Comitato Nazionale per la lotta alla Siccità e alla Desertificazione e perché il Ministro dell’Ambiente italiano dell’epoca aveva “inventato” un progetto per la creazione di un campo “biologico” curato da giovani, per lottare contro la desertificazione, nell’ambito delle iniziative dell’anno internazionale dei deserti e della desertificazione.



Dopo una giornata di intensi dibattiti nella capitale del Mali, la mattina seguente le autorità locali ci hanno accompagnato nell’area oggetto dell’intervento previsto dal Ministero dell’Ambiente, a poco più di 25 km a sud di Bamako, nel cuore di una meravigliosa foresta tropicale, denominata delle Montagne Mandingues, presso il villaggio di Samako, dove abbiamo incontrato la popolazione del villaggio che avrebbe usufruito della donazione italiana.



Ricordo che ci fu un momento in cui decisi di astrarmi dalla realtà, dalle parole, dalle danze, dai suoni, dagli sproloqui dei politici e provai a concentrarmi sulla bellezza della foresta, sul rumore del vento tra gli alberi, sullo splendore selvaggio di un ambiente non addomesticato, sotto un cielo nuvoloso, grigiastro e carico di pioggia… mentre mi stavo chiedendo, un po’ perplesso, che senso avesse in quel luogo lottare contro la desertificazione ed attenuare gli effetti della siccità.

Infatti, rivedendo col pensiero la strada percorsa con l’auto governativa, avevo notato delle donne che lavavano i loro piccoli nelle pozzanghere d’acqua lasciate da un recente acquazzone, ed avevo immediatamente pensato a noi, convegnisti, che avevamo sempre a disposizione le bottiglie d’acqua sigillate per soddisfare la nostra sete. 



In questi ultimi due anni ho avuto occasione di affrontare molti argomenti connessi con le problematiche delle risorse idriche, non solo secondo la loro quantità, qualità, fruizione, trasporto, ma anche in correlazione con i criteri d’uso di questo bene preziosissimo, ed alle conseguenze innescate dai cambiamenti climatici nelle superfici destinate all’agricoltura o nelle aree urbane europee, dove i consumi d’acqua sono sproporzionati, per non dire irrazionali.

Oggi, nonostante la crisi finanziaria che attraversa strutturalmente il mondo della ricerca scientifica, in Europa esistono molteplici attività sperimentali su queste tematiche e proprio la prossima settimana, a Milano (21-22, Palazzo delle Stelline), si svolgerà la conferenza conclusiva del progetto WasserMed, caratterizzato da contributi sulla valutazione di eventi estremi  verificatisi nell’Europa meridionale, nel nord Africa e nel Medio Oriente ed attenta alle evoluzioni dei cambiamenti idrologici provocati dai cambiamenti climatici.

Credo che una domanda fondamentale che si sta ponendo una gran parte di ricercatori sulle problematiche connesse alla disponibilità sempre più ridotta di risorse idriche sia inerente la possibilità di identificare delle tecnologie innovative in grado di salvare il Pianeta dal progredire della siccità, della desertificazione e delle temperature estreme, connesse al riscaldamento terrestre.

E mi ritorna alla mente la foresta tropicale nei pressi di Bamako… come se, in qualche misura, un processo ordinario, più avanzato delle tecnologie di derivazione antropica, fosse già presente nella natura stessa.

Infatti, come spiegano i due fisici russi Anastassia Makarieva e Victor Gorshkov (2006) con la teoria dellaPompa Biotica, la foresta, in particolare quella tropicale ed equatoriale, è in grado di creare zone fresche di perenne condensazione, quindi di depressione atmosferica, che attirano masse d’aria dal territorio circostante e provocano ulteriore condensazione.

La Pompa Biotica sarebbe capace di assicurare all’interno del territorio una costante presenza di acqua a disposizione delle piante e di moderare la dispersione in atmosfera. L’evapotraspirazione che si realizza nelle foreste funge da condizionatore atmosferico riducendo gli sbalzi di temperatura, non produce rifiuti, ma solo biomassa vegetale, utile alla società umana, ad altri organismi ed al pianeta, immagazzinando CO(Pacini, 2012). Fino ad ora non si conoscono effetti negativi legati allo sviluppo di questa  “tecnologia”. Le foreste, quindi, potrebbero essere assimilate ad una sorta di spugna vivente, che fa sì che l’aria umida degli oceani venga trasferita e immagazzinata sulle terre emerse (Fattori, 2010).

 

Eppure gran parte della climatologia sembra non percepire il nesso che esiste tra foreste e cambiamenti climatici, mentre alcuni studiosi ritengono di aver screditato la teoria della Pompa Biotica a causa di presunti errori di base nella fisica dell’atmosfera (Stigter, 2010).

Per altri versi, sono stati necessari due anni e mezzo di controlli e di revisioni perché, la rivista Atmospheric Chemistry and Physic  su questo tema la ricerca “Where do winds come from? A new theory on how water vapor condensation influences atmospheric pressure and dynamics”, di A. M. Makarieva, V. G. Gorshkov, D. Sheil, A. D. Nobre and B.-L. Li.

Intanto, la FAO rende noto che ogni anno il Pianeta perde quasi 200.000 kmq di terreni produttivi a causa di un progressivo inaridimento, dipendente dal taglio indiscriminato delle piante, mentre la desertificazione (perdita di fertilità dei suoli) e la desertizzazione (ampliamento delle aree desertiche) avanzano al ritmo di 60.000 kmq per anno.

Come afferma Tiziana Banini nel suo volume Il cerchio e la linea (2010), «l’errore di fondo che commettono gli esseri umani è quello di agire in modo del tutto autonomo, rispetto alle logiche ecosistemiche, di cui sono parte integrante. In natura ogni cosa è collegata all’altra, i cicli della materia si chiudono, le capacità di autoregolamentazione, di ripristino e di resistenza stanno facendo vivere questo pianeta da oltre quattro miliardi di anni».

Se desideriamo che la vita continui sulla nostra terra, dobbiamo accollarci l’onere di rendere sperimentabili fin dalle scuole primarie il concetto di appartenenza all’ecosistema, non attraverso la retorica della diffusione di nozioni sui processi in atto, spesso poco attendibili sul piano scientifico, ma coltivando una sorta di affinità elettiva con tutte le forme di connessione con la natura, dalla sua struttura fisica fino alla possibilità di cogliere i tratti emblematici della sua bellezza estetica.