Non ci sono solo i meteoriti. Ci sono anche altri noti fenomeni che insidiano dal cielo questo nostro meraviglioso e delicato Pianeta; alcuni prevedibili altri meno; per alcuni la natura stessa ha predisposto speciali autodifese, per altri è compito dell’uomo ideare e predisporre meccanismi di protezione, o almeno tentare di studiarne le mosse.



Da circa un secolo si sa che la Terra è oggetto di un continuo bombardamento a opera dei raggi cosmici: questi sono costituiti da una varietà di particelle e nuclei atomici di alta energia che, a velocità prossime a quella della luce, colpiscono la Terra da ogni direzione. Come dice il nome stesso, provengono dall’universo che ci circonda e hanno origine sia galattica che extragalattica. In buona parte sono particelle cariche positivamente e quando si avvicinano al campo geomagnetico che avvolge il Pianeta possono essere deviate, per una nota legge fisica, e molte possono essere convogliate verso i poli.



Lo schermo magnetico agisce anche sul cosiddetto vento solare, anch’esso costituito da particelle cariche – principalmente da elettroni, protoni e, in una piccola percentuale, da nuclei di elio – emesse al Sole e che investono la Terra a una velocità media di 500 km/s. L’interazione di tutte queste particelle col campo magnetico terrestre dà origine agli spettacoli fantasmagorici delle aurore boreali e australi. I raggi cosmici che arrivano in atmosfera si scontrano con le particelle che la compongono producendo altre particelle col risultato di riversare sulla superficie terrestre una vera e propria “doccia” di elettroni, muoni, fotoni e neutrini. Questi sono i raggi cosmici secondari: per quelli primari quindi, una certa protezione naturale c’è.



Un altro tipo di raggi potenzialmente dannosi, ma per i quali abbiamo una difesa naturale sono le radiazioni UV; in particolare quelle di tipo B e C, quindi con lunghezze d’onda comprese tra 100-300 nanometri, fermate quasi tutte dallo strato di ozono che si trova nella parte inferiore della stratosfera, tra i 20 e i 30 km di altitudine. Qualche tempo fa, l’assottigliamento di questo strato sopra i Poli (il cosiddetto buco dell’ozono) aveva destato un serio allarme, poi in parte rientrato, anche se la situazione va continuamente tenuta sotto controllo. Ci sono diverse iniziative internazionali in proposito, tra cui quelle dell’Esa (Agenzia Spaziale Europea) con i satelliti MetOp ed Envisat che permettono di monitorare la dimensione del buco e di meglio comprendere le cause che ne determinano le variazioni.

Scendendo più vicino alla superficie, un fenomeno che tutti conoscono è quello dei fulmini, uno degli eventi celesti più terrificanti, che da sempre ha suscitato timore e ha dato origine a miti, leggende e superstizioni. Si è dovuto attendere fino alla metà del ‘700 perché dai primi esperimenti di Benjamin Franklin si arrivasse alla realizzazione dei parafulmini. Oggi i fulmini sono ancora oggetto di studi e negli ultimi decenni del secolo scorso si è intensificata la costruzione di sistemi avanzati di rilevamento, con l’impiego di speciali sensori e di una strumentazione sempre più precisa.

In Italia dal 1994 è attiva una rete di sensori di fulmine, denominato Sirf (Sistema Italiano Rilevamento Fulmini) realizzata dal Cesi per la rilevazione in tempo reale e per la localizzazione spaziale delle scariche di fulmine che si sviluppano tra nubi e suolo. Tra i servizi offerti dal Sirf, c’è la predisposizione di una mappa dei punti di impatto dei fulmini sul territorio nazionale aggiornata con frequenza regolare. Ma sono numerosi i siti web che presentano dati sulla quantità di fulmini che si abbattono ogni ora nelle diverse zone e permettono la localizzazione dei punti di impatto.

Dal cielo potrebbero incombere anche i batteri. È notizia recente, e da sottoporre ad approfondimenti critici, quella relativa alla presenza di un numero significativo di microrganismi viventi – principalmente batteri – nella media e alta troposfera (la parte di atmosfera a diretto contatto con la superficie terrestre). La scoperta è stata descritta dai ricercatori del Georgia Institute of Technology sulla rivista Pnas: i microrganismi sono stati rinvenuti in campioni di aria prelevati nel quadro della programma Grip (Genesis and Rapid Intensification Processes) della Nasa, che studia masse d’aria a bassa e a alta quota associate a tempeste tropicali. Non è ancora chiara la dinamica del fenomeno: i batteri potrebbero abitare normalmente in questa zona, potrebbero essere coinvolti nel processo di formazione delle nubi, oppure potrebbero essere saliti dalla superficie terrestre per poi ricadere: c’è ancora da indagare.

Infine, la questione meteoriti. Come si è visto, la caduta di un meteorite sulla Terra non è un evento impossibile; anzi, quanto accaduto in Russia è stato occasione per puntare l’attenzione su una situazione già oggetto di studi e di iniziative concrete da parte di enti di ricerca e delle varie Agenzie spaziali. Si sa che gli asteroidi che arrivano nei dintorni della Terra sono numerosi: data la loro varietà, è stato coniata l’apposita denominazione di Neo (Near Earth Object) e all’interno di questa categoria si cerca di stimare la presenza degli oggetti potenzialmente pericolosi. Un certo monitoraggio è possibile e non mancano i programmi. Come quello del Centro europeo di raccolta e processamento dei dati osservati sui Neo, ormai operativo all’Esrin di Frascati e che potrebbe essere inaugurato nell’aprile prossimo, aggiungendosi al più noto Minor Planet Centre che opera presso lo Smithsonian Astrophysical Observatory ad Harvard.

Il numero di oggetti che arrivano al suolo è comunque più alto di quanto si immagini, anche se già l’atmosfera offre una prima protezione, frenando e disgregando molti macigni cosmici; poi c’è la distribuzione delle terre e delle acque, con la prevalenza di queste ultime e quindi la ridotta probabilità di un impatto su un centro abitato. Però a Chelyabinsk tale impatto si è verificato e ciò dovrà portare a una revisione dei programmi di monitoraggio e a un incremento delle ricerche e delle analisi sui Neo.

Di fronte a tutte queste situazioni si può avanzare una considerazione. Il fatto che non riusciamo a prevedere tutto e a difenderci completamente non deve gettare una ventata di scetticismo sulle possibilità dell’uomo, sull’aumento delle sue conoscenze e sulle potenzialità prodotte dalla sua genialità tecnica. D’altra parte, gli insuccessi predittivi e operativi sono un continuo invito a non fare della scienza e tecnica un idolo, ad esaltarne l’onnipotenza per poi lasciare il posto a una delusione tutte le volte che i suoi strumenti si rivelano insufficienti.

Soprattutto è invito a guardare alla natura come un dono di cui non disponiamo totalmente, che proprio per la sua alterità ci sorprende e ci spiazza e quindi ci interroga e sollecita a scoprire il senso e i modi della nostra responsabilità, individuale e comune.