Per oltre un decennio mi sono occupato del processo di desertificazione nel mondo, fenomeno inteso come alterazione e degrado dei suoli fertili, fortemente connesso con lo stato di povertà della popolazione che lo subisce, la quale, non avendo più la possibilità di coltivare la propria terra, è costretta a migrare verso destinazioni più promettenti.



Occuparsi della lotta alla desertificazione ha voluto significare entrare nel merito dei fattori che ne sono la causa, fattori naturali ed antropici, ed individuare delle proposte di progettualità in grado di monitorare i terreni, di lanciare allarmi precoci nelle situazioni più a rischio e di studiare forme alternative di sussistenza per le aree già soggette a sterilità.



L’esperienza che mi ha attraversato, soprattutto negli anni di conduzione del Comitato Nazionale per la Lotta alla Siccità e alla Desertificazione, è stata caratterizzata dal permanere in luoghi colpiti da tale processo e dall’incontrare tipologie di umanità, spesso così differenti tra loro, ma con un denominatore comune: il bisogno di cibo e di acqua, il bisogno di imparare delle tecniche alternative per coltivare la terra e, contemporaneamente, il bisogno di dare un senso alla propria vita.

È stato un po’ come accorgersi del livello di impotenza, mista a obsolescenza, di noi occidentali, così evoluti, così tecnologici, così attenti a formulare l’esatta definizione di eventi che, forse, non abbiamo mai incontrato direttamente nella realtà, come la fame, l’indigenza, l’impossibilità di curarsi, la carenza di risorse idriche e siamo rimasti abbarbicati alla nostra supponenza o presunzione riguardo a ciò che “altri” devono o non devono realizzare.



Dall’InnerMongolia al Mali, al centro America, allo Yunnan, ovunque ho avuto occasione di incontrare il mondo della ruralità, ho potuto comprendere in misura sempre più significativa il disagio di appartenere ad una realtà umana rivolta troppo spesso al consumo esasperato delle risorse, non più in grado di percepire il nesso strutturale con i Paesi più poveri della Terra. È il disagio di chi visita i luoghi ed i terreni che necessitano di cure, di prevenzione, di acqua e che ignora, quasi, il contesto umano che ha di fronte o, al massimo, lo commisera, come se, al fondo della questione, esistesse una specie di fortuna ad essere nati in Europa e una inevitabile sfortuna essere venuti alla luce nella fascia sub-sahariana.

Oggi il disagio coincide con la consapevolezza di non riuscire ad immaginare prima e a costruire poi una sostenibilità sociale ed ambientale, finalizzata alla condivisione dei bisogni elementari dell’essere umano: quell’umanità che hai di fronte in maniera così plateale, come mi è capitato in un villaggio della foresta tropicale in Africa, alla quale noi offriamo solo “monetine luccicanti”, mentre, la sera, andiamo a dormire in hotel a cinque stelle, di proprietà occidentale, a costi esorbitanti.

Nei Paesi più sviluppati del Pianeta si continuano a formulare i principi tendenti a razionalizzare il concetto di sviluppo sostenibile, ma, nella sperimentazione della vita reale, si constata una inverosimile aggressione alle risorse disponibili, ignorando volutamente e caparbiamente la reale consistenza della domanda di alimenti, che scaturisce quantitativamente dalla maggior parte della popolazione mondiale.

In qualche misura siamo, noi popoli occidentali, dei neomalthusiani che, dopo esserci scandalizzati della logica economica del prete protestante Thomas Robert Malthus, che aveva constatato una differente velocità di crescita della popolazione rispetto a quella delle risorse naturali, riteniamo, senza dircelo mai apertamente, più che giusto ciò che lui sostenne molto freddamente, ovvero, che chi non è in grado di mantenersi deve, in qualche modo, soccombere.

Lo abbiamo imparato da autorevoli Capi di Governo, che, quando partecipano a summit planetari, promettono sostanziosi aiuti economici ai Paesi indigenti, e che poi, a Congresso concluso, si risolvono in un nulla di fatto, anzi in una dimenticanza programmata. In più, oggi i popoli ricchi lamentano di essere attraversati da una crisi spaventosa: Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, non sono altro che i paradigmi di un fallimento annunciato, che, ben lontano dall’essere risolto, ha in sé tutte le sintomatologie di un malato terminale.

Su sette miliardi di persone che vivono oggi sulla faccia della Terra, oltre l’80% sperimenta una condizione di progressiva povertà, secondo fasce di ampiezza differenti, subendo come destino la assoluta indifferenza dei popoli ricchi. Forse, come suggerisce Tim Jackson in un suo recente lavoro “Prosperità senza crescita” (2009), bisognerebbe riportare alla memoria di ognuno, in particolare a coloro che vivono e sperimentano un’economia di tipo capitalistico, il concetto di felicità, la cui consistenza è determinata da una complessità di fattori: tra questi la risorsa economica non è la prevalente, anche se occorre comprendere la sua composizione strutturale nel tempo.

Da un’attenta lettura dei dati e degli eventi ad essa connessi si intuisce che la gestione di un’economia mondiale, nonostante la presenza di autorevoli Governatori della Federal Reserve, come Ben Bernanke, risulta essere un obiettivo strategico di grande livello, ma ancora ampiamente non collaudato, nonostante le potenzialità informatiche oggi disponibili. Sono soprattutto le posizioni debitorie, pubbliche e private, statunitensi, dovute ad una errata concezione di sviluppo, fatta coincidere con l’accentuazione del consumismo, a determinare impressionanti squilibri sul mercato finanziario, troppo spesso fuori controllo, dando adito agli speculatori di intervenire sul mercato immobiliare prima e sull’aumento delle materie prime poi.

Nell’evoluzione del sistema economico mondiale, se i Paesi ricchi subiscono dei tracolli finanziari vertiginosi, i Paesi più poveri vedono quintuplicarsi i costi del riso, del grano, del frumento. Se è vero che tutti perdono abbondantemente, gli ultimi, quasi un paio di miliardi di popolazione, perdono la possibilità di accedere al cibo e all’acqua.

L’eccezionale aumento del prezzo dei beni agricoli degli ultimi anni è stato per larga parte imputato a speculazioni sui mercati finanziari, cioè all’azione di gruppi di potere che avrebbero usato il commercio in materie prime come modo per destabilizzare l’economia mondiale. A supporto di tale tesi sono stati citati numerosi argomenti, tra i quali l’aumentata popolarità dei prodotti finanziari sintetici (c.d. ingegneria finanziaria o finanziarizzazione del mercato agricolo), nonché l’uso di alcune tipologie di investimenti adottate da intermediari finanziari senza scrupoli, e il conseguente numero di fallimenti per eccessiva esposizione al debito (USDA, 2009).

In altre parole, forse più veritiere di quelle raccontate dai freddi numeri dell’economia, gli errori nelle valutazioni finanziarie e le speculazioni finalizzate alla destabilizzazione mondiale dell’economia producono milioni di morti per denutrizione.