È possibile che discipline diverse come la biologia e la filosofia abbiano qualcosa di rilevante da dirsi e che uno scambio e un confronto possa aiutare ciascuna ad avanzare lungo la propria strada? La risposta è sì, contrariamente a quanto solitamente si sente dire o capita di leggere anche in contesti scolastici e accademici. Lo aveva documentato efficacemente il Simposio di San Marino 2012 sul tema “Biological evolution and the nature of Human beings”, organizzato dall’Associazione Euresis e del quale escono ora gli atti disponibili on line nel quarto numero di Euresis Journal.
Come è tradizione nei Simposi di San Marino, giunti alla loro sesta edizione, l’incontro ha riunito ricercatori e studiosi di alto livello internazionale e appartenenti a un ampio spettro di discipline, per dibattere su questioni come la natura dell’evoluzione biologica e l’emergere dell’uomo. Le presentazioni, a cura di biologi e paleo-antropologi, linguisti e filosofi, si sono focalizzate sulla revisione e discussione dell’attuale comprensione dell’evoluzione e del posto dell’uomo al suo interno. I risultati dei dibattiti, come il volume documenta, sono stati molteplici e ricchi. In particolare, il carattere interdisciplinare delle discussioni è chiaramente visibile nel dialogo costante che è sostenuto in tutti gli articoli: una cosa per niente banale, se si considera l’ampiezza di prospettive e metodologie coinvolte.
Possiamo prendere ad esempio le discussioni intorno all’emergere dell’uomo. I moderni esseri umani sono qualitativamente molto diverso dagli altri animali, nel senso che hanno una modalità unica di cognizione che permette loro il pensiero astratto. Homo sapiens è in questo senso un evento unico nella storia naturale. Ma da dove proviene questa capacita così singolare, se in tutte le altre specie, in milioni di anni di evoluzione, manca ogni traccia di ciò? Oppure manca a noi qualcosa di palesemente evidente nell’osservazione degli altri animali?
Come illustrato da Ian Tattersall, dal Museo di Storia Naturale di New York, la paleontologia suggerisce che i requisiti biologici per la nascita del modo simbolico di cognizione che caratterizza l’Homo sapiens erano già presenti in altri ominidi molto prima dell’alba dell’uomo moderno; ma per qualche motivo questa caratteristica non è emersa fino a un istante molto specifico della storia. Da questo fatto si possono trarre due implicazioni: in primo luogo, che le condizioni per un alto livello cognitivo (semplicemente parlando, una capacità di cervello più grande) non hanno sofferto di selezione naturale a lungo termine, visto che dal primo momento non hanno conferito vantaggio evolutivo rispetto alle altre specie. Questo meccanismo è chiamato “exaptation”, il contrario di “adattamento”, per cui le specie acquistano un vantaggio immediato e graduale attraverso mutazioni in più generazioni.
Ciò è di per sé sorprendente, ma la risposta alla domanda su che cosa poi ha “attivato” l’emergere dell’uomo sembra venire non solo dalla biologia, ma soprattutto da un fenomeno culturale: il linguaggio. La capacità potenziale di pensare astrattamente, che era latente per un lungo periodo in altre specie di ominidi con grande capacità di cervello, avrebbe preso vita quando, a un certo punto, questa facoltà misteriosa è entrata nell’orizzonte di un piccolo gruppo in un specifico tempo e luogo. Una volta che è stato “inventato” il linguaggio (è il tema dell`articolo di Andrea Moro), liberando cosi il pieno potenziale del cervello e trovando negli altri membri della specie le condizioni biologiche per diffondersi, questo ha generato una rivoluzione culturale che ha aperto un nuovo mondo dentro il mondo: quello del pensiero simbolico e della astrazione.
La scienza sta imparando molto su tante cose e lo sta imparando in fretta. Ma, mentre si entra nel “secolo dell’informazione”, è importante capire che l’abbondanza di dati e informazioni non è uguale a conoscenza. Infatti, la quantità di informazioni su alcuni sistemi (ad esempio i regolatori genetici nel nostro corpo) sembra aumentare indefinitamente con le nuove tecnologie disponibili anno dopo anno. Nonostante ciò, come ci fa vedere Giorgio Dieci, per ben capire i dati disponibili abbiamo bisogno di una solida ipotesi interpretativa che essi stessi non ci danno.
Ed è qui che l’interdisciplinarità, e la proposta di Euresis Journal, entra in gioco. Noi crediamo che una vera sintesi di conoscenza non sia possibile seguendo un’unica ed esclusiva metodologia o una singola linea di indagine. In un mondo dove nulla è irrilevante né scollegato dal resto, la conoscenza e la comprensione non stanno tanto nella disponibilità dei dati di laboratorio ma, attraverso di essi, nel punto di fuga rappresentato da quello che è il successo più grande della natura: una ragione in grado di capire e dare un senso all’enorme complessità della natura. Al di fuori di questa prospettiva, tutto sarebbe risucchiato in una crescente e insoddisfacente dispersione.