Nel suo discorso di inizio pontificato Papa Francesco ha rivolto un forte monito a custodire la bellezza del creato: «Custodire l’intero creato, la bellezza del creato, avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo». Da notare che i termini custodire, custode, custodia ricorrono 32 volte in quell’omelia del 19 marzo; e sono tornati tre volte anche nel messaggio Urbi et Orbi del giorno di Pasqua: esprimono l’invito a un cambiamento di atteggiamento, a farsi carico di una attenzione e di una cura per “l’altro”, per tutto ciò che l’uomo si trova accanto come presenza, come dono. 



Riferito alle problematiche ambientali, quello del “custodire” è un tema fondamentale e particolarmente adatto per un superamento di posizione estreme e contrapposte: quelle che vedono da un lato coloro che esaltano una irrealistica natura incontaminata e da lasciare tale; dall’altro quelli che sottovalutano gli impatti dell’uomo sull’ambiente e, tacitamente o meno, sostengono un intervento umano incondizionato e dominatore.



Il concetto di “custodia” è in grado di offrire una prospettiva positiva su un argomento che il più delle volte è affrontato in modo difensivo, di pura denuncia e di sterile polemica. Custodire – che nel testo biblico è abbinato a coltivare – ancor più dei pur giusti e importanti termini “tutela” e “salvaguardia”, indica un intervento attivo, non di pura conservazione e neppure solo di protezione verso le minacce esterne. Indica il valore dell’oggetto in sé – la natura come bene a disposizione dell’uomo – e quindi il compito non solo di conservarla ma di farla crescere, di farle esprimere tutte le sue potenzialità. «All’uomo è lecito esercitare un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate in modo che essa possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione che la abita» (Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 50). 



Come si intuisce già da questa citazione, il richiamo di Papa Francesco si inserisce in una linea chiaramente tracciata dai suoi due predecessori e trova un’eco diretta e approfondita nelle riflessioni sviluppate dal gruppo “Custodia del creato” promosso dalla Cei: riflessioni articolate in una serie di iniziative e riorganizzate nel volume Custodire il creato (EDB, 2013).

La linea di pensiero sviluppata da Giovanni Paolo II e da BXVI ha come asse portante il richiamo alla centralità dell’uomo. Il Papa polacco parlava del rapporto uomo-ambiente come viziato da un errore antropologico: «Alla radice dell’insensata distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L’uomo che scopre la sua capacità di trasformare e in un certo senso di creare il mondo con il proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio» (Centesimus Annus, n. 37).

Dal canto suo Benedetto XVI, sempre nella Caritas in Veritate, ha segnalato la priorità “strategica” di un’ecologia dell’uomo: «Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l’indebolimento di una espone a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura».

Questo ci conduce direttamente al criterio del bene comune come orizzonte del “custodire la Terra” e quindi – come osserva Pier Davide Guenzi nel suo contributo al volume del Progetto Culturale della Cei – come prospettiva da cui partire per “trarre le necessarie conseguenze operative a livello legislativo e di pratiche eco-compatibili”.

In particolare due dimensioni offrono una declinazione di tale “custodia”: quella dell’abitare e quella della cura.

La prima, che non è “un puro evento accidentale ma rappresenta una dimensione originaria dell’esistere”, consente di ripensare alle questioni tecnico-scientifiche dell’habitat ricollocandole all’interno di una rielaborazione complessiva; come ben sintetizzava Jean Ladrière: «La metafora dell’habitat indica molto più che il semplice dato fattuale di un luogo in cui ci si può abitualmente trovare, in modo neutro e accidentale. Indica piuttosto un legame necessario tra l’esistenza e un luogo che possa essere per l’esistenza un “luogo proprio”. L’esistenza deve addomesticare il proprio luogo e lasciarsi addomesticare da quello. è così che diviene per lei un “luogo proprio”».

Quanto alla cura, riprendendo alcune considerazioni di Elena Pulcini (La cura del mondo, 2009), Guenzi pone il giusto interrogativo di cosa possa motivare «l’assunzione condivisa della custodia del creato»: non sarà la pura reazione alla paura suscitata dai tanti rischi ambientali, né la richiesta che la vita possa «semplicemente essere garantita nella sopravvivenza secondo gli equilibri della biosfera». Bisogna ritrovare la forza di una prospettiva come quella del bene comune, che con la sua «vivacità immaginativa può orientare lo sforzo del pensiero umano per non perdere la “forma del mondo” e la stessa possibilità di una vita umanamente degna e riuscita».