Nel giorno in cui ricorreva il sessantesimo anniversario della scoperta della struttura del DNA da parte di Francis Crick e James Watson – che era stata presentata sulla rivista Nature il 25 aprile 1953 – lo stesso prestigioso giornale ha pubblicato un interessante commento (Philip Ball, “Celebrate the unknowns”, Nature, vol. 496, pp.419-420), in cui viene sottolineato quanto inevitabile ormai sia ammettere che non sappiamo come e in che misura il DNA, che costituisce il nostro genoma, governi i nostri tratti fenotipici, cioè le nostre tangibili caratteristiche di esseri viventi. Parimenti, sottolinea Nature, a sessant’anni di distanza siamo costretti a realizzare che “non comprendiamo appieno come l’evoluzione funzioni a livello molecolare”.
L’idea che gli organismi viventi e la loro evoluzione siano ultimamente, esattamente riconducibili al DNA e alle sue dinamiche mutazionali e replicative, idea di cui non sono mai mancati i sostenitori a oltranza fuori e dentro il mondo scientifico, sopravvive soprattutto nella retorica di certe discussioni pubbliche e fonti divulgative, spesso dominate dallo sforzo di non ammettere lacune nella conoscenza dei meccanismi dell’evoluzione e dell’essenza dei viventi, anziché dall’entusiasmo nel constatare l’inaspettata ampiezza d’orizzonte che l’analisi sempre più approfondita dei genomi, e della intricatissima loro espressione nel contesto cellulare, sta rivelando. Dove sono scritte la cavallinità del cavallo, la “quercità” della quercia, l’umanità dell’uomo?
Le quattro lettere ripetute all’inverosimile sui nastri dei loro DNA si lasciano sì leggere dal nostro occhio attento e preparato, rivelando migliaia di parole che significano proteine –biomolecole fondamentali la cui eleganza e complessità supera ogni volta la nostra immaginazione-, e molte altre parole che significano RNA ribosomiali, RNA transfer, e ancora piccoli RNA nucleari e nucleolari… È rassicurante decifrare nella sequenza del DNA genomico della quercia, del cavallo e dell’uomo le istruzioni per la biosintesi di queste macromolecole, con le cui strutture e funzioni abbiamo una certa familiarità, e la cui comparazione ragionata ci illude in fondo di tenere in mano la chiave delle differenze fra quercia, cavallo e uomo.
Ma chiede risposta intanto, e ci provoca, anche se forse ancora non ci sconcerta come dovrebbe, il fatto che più dei nove decimi delle istruzioni scritte nel genoma non servono alla sintesi di queste macromolecole conosciute; che anzi ogni genoma potrebbe istruire la sintesi di innumerevoli altri RNA con ruoli ancora nemmeno immaginati; che alcune istruzioni sono ripetute nei genomi centinaia di migliaia di volte, eppure caparbiamente mantenute silenti nella maggior parte delle cellule: e forse sono proprio questi strani pacchetti di istruzioni taciute, ma capaci di replicarsi e muoversi e colonizzare i genomi, forse sono proprio loro, i retrotrasposoni, una delle chiavi incontrollabili dell’evoluzione.
La corrispondenza fra genotipo e fenotipo ha cominciato a sfuggirci proprio quando, convinti di averla inquadrata nell’ingenua visione del DNA che comanda e della materia informe che gli obbedisce prendendo forma, abbiamo creduto –complice una retorica nemica della scienza- di avere finalmente accesso alle “istruzioni per fare un uomo”. E di avere una storia molto facile da raccontare. Invece, la profondità di quanto è scritto nel nostro DNA così come in quello della medusa, dell’ortica e del più sfuggente protozoo, insieme alla sempre più palese molteplicità di livelli dell’eredità biologica (uno solo dei quali, forse il più facile da esplorare, è rappresentato dall’eredità genetica legata al DNA), ci stanno invitando a considerare una storia molto più complessa e affascinante, stranamente più corrispondente alle nostre attese, il cui racconto è forse appena incominciato.