La ricerca sulle neuroscienze sta vivendo una fase di crescita impressionante. Dagli anni 90 del secolo scorso, definiti come “il decennio del cervello”, si sono moltiplicate le scoperte, le pubblicazioni, le iniziative; sono stati allestiti nuovi centri e laboratori; sono nate numerose sotto-discipline a carattere neurobiologico; e anche il mondo industriale si sta interessando ai possibili sviluppi applicativi. Un vero boom, che ormai ha varcato i confini degli addetti ai lavori per entrare nelle cronache e inserirsi, più o meno correttamente, nell’immaginario collettivo.



Un fattore determinante per l’accelerazione delle ricerche e per l’abbondanza di risultati sono state le nuove tecniche di indagine rese disponibili dalla convergenza delle conoscenze biomediche e delle tecnologie elettroniche e informatiche. Sono le tecniche che consentono lo studio del cervello “in diretta”: oggi l’oggetto “cervello” e tutto il sistema nervoso non viene studiato solo nella sua morfologia e nella sua struttura indipendentemente dalla vita del soggetto umano cui appartiene; oggi si entra all’interno dei processi cerebrali, che possono essere esaminati non più solo indirettamente, sulla base dei comportamenti, dei riflessi agli stimoli, dei test psicofisici. Con le tecniche del brain imaging, con le neuro immagini e le macchine citate nel testo di Edoardo Boncinelli, si può vedere il cervello all’opera, si può – come dice lo stesso Boncinelli – “guardare dentro la testa di un essere umano vivo e vegeto, mentre esegue un compito”.



Si è iniziato così a conoscere meglio la complessa organizzazione del sistema nervoso, centrale e periferico: fatto di connessioni, di nodi e di linee dove passano segnali biochimici ed elettrici; dove prevalgono le configurazioni reticolari e dove le reti si affacciano su altre reti e continuano a crescere, a modificarsi, a specializzarsi. Per i neuro scienziati è stato come entrare in un continente sconosciuto che non ha l’aspetto di una calma e uniforme pianura bensì quello di una intricata e movimentata foresta; o, se vogliamo, di un labirinto ma di quelli un po’ speciali, dove ogni possibile uscita si apre su un ulteriore labirinto. Ne risulta una mappa più che complessa, che si è appena iniziato a tratteggiare ma dove già si intravvedono le aree da zoomare e le possibili piste di approfondimento. 



Una cosa è subito chiara: l’esplorazione di questo continente non può essere opera di pochi studiosi solitari, pur geniali e coraggiosi. Vanno messe in campo organizzazioni più articolate e di grandi dimensioni, che possano contare – come suggerisce l’analisi di De Sio – sul supporto sia delle istituzioni statali che dell’iniziativa privata. Se fino a qualche tempo fa la cosiddetta “Big Science” era tipica della fisica, a partire dal Progetto Manhattan su su fino al Cern e ai Telescopi spaziali, ora anche le scienze della vita si aprono a queste prospettive gigantesche. Lo hanno già sperimentato col Progetto Genoma Umano e con la cascata di progetti in fase di definizione alla nuove frontiere della genetica, caratterizzata dall’emergere dell’epigenetica, della proteomica e della System Biology. Ma si stanno avviando colossali progetti anche nel campo neuroscientifico: come la “Grande Sfida” dell’iniziativa “Brain” per la quale il Presidente statunitense Obama ha messo a disposizione un primo stanziamento di 100 milioni di dollari; o lo “Human Brain Project” europeo, al quale parteciperanno 87 istituti di ricerca, di cui 5 italiani. 

Perché parlare di sfide e di scommesse di fronte a queste iniziative?

Sempre la ricerca scientifica è una sfida e una scommessa. Anche se il ricercatore si muove sulla base di ipotesi lungamente ponderate, ben formulate e sottoposte alla valutazione critica di colleghi ed esperti, c’è sempre la possibilità di scoprire che la pista giusta è un’altra, o che comunque l’ipotesi scelta risponde solo a una parte del problema. Anche i tempi sono una componente della scommessa: tutti i programmi di ricerca hanno il capitolo “tempistiche”, ma non sempre le indicazioni possono essere rispettate. E ciò non solo in senso negativo, cioè proclamando un insuccesso. Significativi in proposito sono i casi di satelliti per la ricerca astrofisica che hanno dimostrato di poter funzionare egregiamente per molto più tempo del previsto e la cui attività di raccolta dati in orbita è stata prolungata ben oltre i termini prefissati.

Insomma, nella lista dei fattori da considerare per lo sviluppo di un’indagine scientifica, un ruolo non marginale va lasciato all’imprevisto e quindi a tutte quelle condizioni culturali, organizzative ed economiche che mettono in grado gli scienziati di riconoscere quando si verifica un evento inaspettato, un fenomeno inatteso, un dato non calcolato; e di trarne frutto. Nel caso della ricerca sul cervello tutti i problemi appena indicati vengono amplificati, proporzionalmente alla complessità dell’impresa. Di questo si devono rendere conto sia i ricercatori sia i politici sia le industrie che aspettano con ansia le possibili ricadute sul business. 

Proprio in merito alle applicazioni vale la pena accennare alla posta in gioco. L’ambito più praticato e sviluppato finora è stato quello della diagnostica, cioè della sistematica osservazione – resa possibile dalle tecnologie prima menzionate – dei funzionamenti cerebrali anomali nel tentativo di rintracciarne le cause. Ci sono però molti che pensano già anche alle terapie; e non è infrequente il caso che la notizia di una scoperta su un particolare processo cerebrale sia subito accompagnata dalla promessa di possibili terapie risolutive.

Qui va avanzata una prima riflessione. Se parlate con un neuroscienziato dello stato della ricerca, probabilmente vi dirà che sono tantissime le novità emerse in questi ultimi due decenni ma sono ancor di più i problemi via via aperti. Si impone allora l’interrogativo: come è possibile procedere alle applicazioni quando le conoscenze di base sono così carenti? Il rischio principale è destare, soprattutto in chi è colpito da malattie neurologiche, aspettative non fondate, suscitare promesse che si sa già di non poter mantenere.

Una seconda riflessione porta a galla un altro aspetto critico, connesso al citato moltiplicarsi delle discipline di area neurologica. Si ha spesso l’impressione che sia sufficiente applicare il prefisso neuro- per poter ricondurre ogni fenomeno umano alle sue radici neurofisiologiche e dichiarare di aver trovato la stele di Rosetta, la chiave segreta di quel fenomeno. Qui è evidente la tendenza latente, ma spesso manifestata esplicitamente, di un approccio riduzionistico: si riduce la mente al cervello, si collocano le cause di comportamenti, atteggiamenti, espressioni personali nei puri meccanismi cerebrali, nella topografia e nella logistica dei circuiti neuronali.  

Si capisce allora che sul piatto della scommessa di cui stiamo parlando, va messo l’uomo, nella sua identità irripetibile, nella sua unitarietà non scomponibile e non riducibile a una sommatoria di funzioni specializzate.

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