Si parla molto in questo periodo dei droni: per le loro performance militari e anche per i risvolti politico-commerciali, dato lo squilibrio tra i maggiori produttori Usa e Israele da un lato e tutti gli altri Paesi dall’altro. C’è però un ulteriore campo applicativo che si sta prospettando ed è quello della ricerca scientifica. Ci sono settori di indagine che, per le condizioni estreme o comunque difficoltose nelle quali si svolgono, vedono molto favorevolmente la possibilità di eseguire misure, raccogliere dati e condurre test con apparecchiature pilotate solo a distanza dall’uomo, quindi con i droni, più precisamente denominati UAV (Unmanned aerial vehicle).
Si pensi a ricerche ambientate ai Poli, a quelle sui vulcani attivi o a quelle in ambienti naturali inesplorati e selvaggi: sono situazioni dove è molto meglio mandare in avanscoperta un veicolo senza equipaggio umano, e teleguidarlo stando seduti davanti a una console e a uno schermo come quelli ai quali ormai molte fiction ci hanno abituato. Sull’ultimo numero di Nature, Emma Marris elenca alcune di queste ricerche condotte negli ultimi tempi.
Come quella della Nasa, che ha impiegato un piccolo drone militare, il Dragon Eye, per fotografare da vicino e campionare i gas nocivi liberati dal vulcano Turrialba nei pressi di San Jose in Costa Rica. Nei dintorni del Polo Nord da una decina d’anni gli esperti di remote sensing dell’università di Boulder (Colorado) inviano droni a misurare i parametri più importanti dei ghiacciai artici, sorvolando le bianche distese a 30 metri dalla superficie con venti a 150 km/h e temperature di 40 gradi sottozero; analogamente in Antartide solo gli UAV possono monitorare i processi di formazione dei ghiacci anche nelle proibitive condizioni invernali.
Da qualche tempo anche i biologi stanno pensando a vari utilizzi dei droni. Un ingegnere in pensione americano ha messo a punto un sistema basato su un elicottero teleguidato con sopra installati speciali nidi per catturare dei rari avvoltoi della Mongolia in modo che gli scienziati possano dotarli di trasmettitori e tracciare i loro spostamenti.
In campo vegetale, al centro di robotica dell’università di Sidney è stato sviluppato un modello che abbina un drone a un elicottero per localizzare le malerbe in lontane distese campestri per poi innaffiarle con erbicidi.
Altri biologi stanno “insegnando” ai droni a distinguere un tipo di pianta da un altro, per poter realizzare in automatico delle accurate mappe della vegetazione di ampi territori. O ancora, si può citare l’Agenzia Scozzese per la Protezione dell’Ambiente che ha acquistato un drone da un’azienda svizzera per monitorare le crescite di alghe negli estuari dei fiumi.
Gli esempi si stanno moltiplicando, ma i problemi non mancano. Anzitutto sul piano tecnologico. È vero che dai primi tentativi effettuati dalla stessa Nasa fin negli anni 70, le cose sono molto migliorate: si è diffuso il GPS, molte apparecchiature hanno raggiunto elevati livelli di performance e i costi si sono abbassati. Ma non basta. Gli sforzi dei tecnici sono ora indirizzati a migliorare l’autonomia, la manovrabilità e la resistenza degli UAV.
Si devono ideare algoritmi che rendano i droni sempre più abili nel decifrare i segnali raccolti dai sensori e li traducano in decisioni operative da assumere in completa autonomia. Vanno migliorati i metodi di navigazione basati sui sistemi di visione automatica. E poi c’è il problema del volo in gruppo, o meglio in stormo, che per macchine automatiche richiede un’ottima capacità di comunicazione e di scambio di informazioni tale da consentire loro di prendere decisioni collettive in tempi rapidi.
Infine c’è la solita questione di tutte le macchine “autonome”: l’energia. Anche qui, una soluzione può venire dalla miniaturizzazione delle batterie; un’altra dai tentativi, “alla Leonardo”, di realizzare piccoli velivoli in grado di imitare gli uccelli nello sfruttamento delle correnti ascensionali e dei venti. Mentre al Swiss Federal Institute of Technology di Zurigo si sta realizzando un velivolo a energia solare che, teoricamente, non dovrebbe mai atterrare e continuerebbe a sorvegliare terre e mari per segnalare focolai di incendio, depositi illegali o imbarcazioni alla deriva nell’oceano.
A fronte di tutto ciò, restano pesanti problematiche di tipo normativo e legale. A partire dagli stessi Stati Uniti, dove le autorizzazioni per gli usi civili dei droni richiedono un iter complesso e tutto deve essere correttamente certificato: dai piani di volo alle qualifiche dei piloti remoti a terra. Ma sembrano ostacoli la cui asticella sembra abbassarsi sempre più.