Come nei migliori film di guerra le strategie sono pronte da tempo: si conosce la postazione di ogni cannone, le trappole sono tutte pronte e ben nascoste, lo studio del nemico non lascia spazio all’errore, appena arriverà sapremo affrontarlo e sconfiggerlo. Una titanica battaglia coinvolge il nostro sistema immunitario contro gli invasori: non è difficile immaginare il nostro eroe preferito mentre passeggia, sicuro e fiero, scruta il campo di battaglia e aspetta il momento buono per rispondere all’attacco, con la sua tattica preparata, infallibile secondo i calcoli.
Purtroppo la vittoria non sempre arriva, a volte siamo noi a perdere, conquistati, annientati, battuti: i calcoli e la strategia di una macchina da guerra perfetta messi sotto sopra da un “piccolo Davide” che sorprende il nostro portentoso Golia con una mossa inaspettata. Sconfitti dal mondo microscopico: batteri, virus che, nella loro semplicità elementare, sono in grado di adattarsi alle condizioni più estreme mutando di continuo il loro aspetto. Come in un tragico ballo in maschera si confondono tra la folla delle cellule dell’organismo, come dei codardi si insinuano senza mai svelare la propria identità ma cambiando ad un ritmo insostenibile il loro aspetto esteriore e il loro patrimonio genetico grazie al l’acquisizione di geni, plasmidi, brandelli di DNA della loro precedente vittima.
L’unica soluzione è avere mezzi più efficienti, un sistema immunitario con risorse per ogni tipo di infezione. Un’ipotesi irrealizzabile. Se, però, si cambiasse la tattica? Se al posto di combattere in modo onesto ed eroico, con lo stendardo sventolante, si prendesse esempio dallo scaltro Ulisse?
Le proteine responsabili della nostra difesa, comuni a tutti i mammiferi, sono caratterizzate da una regione chiamata CDR (Complementarity Determing Regions): lunghe braccia proteiche che riconoscono il nemico e lo ingabbiano permettendone l’eliminazione. Strumenti estremamente efficaci ma con una capacità di innovazione ridotta rispetto al nemico.
Era ciò che si pensava fino a quando Vaughn Smider, del The Scripps Research Institute (TSRI), e Waithaka Mwangi, del Texas A&M College of Veterinary Medicine and Biomedical Sciences (CVM), non hanno trovato proteine simili alle nostre – con regioni CDR – che nelle mucche si presentavano con una conformazione anomala: avevano braccia più lunghe e un alto tasso di mutazioni che permetteva alla proteina, grazie a modificazioni puntiformi, di rendersi all’avanguardia nella difesa dell’organismo; in grado, addirittura, di riconoscere e bloccare diversi ceppi di virus dell’HIV. Questa potrebbe presentarsi come una delle maggiori scoperte nell’ambito medico: siamo veramente riusciti a trova qualcuno, una mucca, in grado di sconfiggere uno dei peggiori flagelli della nostra epoca? L’indagine di laboratorio è iniziata raccogliendo tutte le forze necessarie per studiare meglio questa regione sconosciuta nell’uomo ma comunissima nei bovini. Le proteine vengono sintetizzate dalle cellule B in grande quantità ed è stata osservata una certa somiglianza tra queste nuove CDR e i veleni di alcuni insetti. Tutto molto affascinante ma resta una domanda secondo Smider: come ha fatto il sistema immunitario delle mucche a sviluppare la capacità di produrre queste strane proteine? La risposta potrebbe derivare dal sistema digerente: nei quattro stomaci in cui l’erba deve passare per poter essere digerita vi è una concentrazioni molto elevata di batteri e altri microorganismi, che potrebbero fuoriuscire nel torrente circolatorio e invadere tutto l’organismo. Come sistema di prevenzione è plausibile immaginare che le mucche abbiano iniziato a produrre queste strane proteine. La speranza di poterle usare per la cura di patologie umane prende ogni giorno vigore senza rinunciare ad una certa cautela: è fondamentale mantenere lucidità anche davanti a scoperte di questo tipo per evitare di tralasciare anche il più piccolo dettaglio e causare, quindi, disastri ben peggiori ai quali non siamo assolutamente prepararti. Conviene rimanere davanti a questa notizia con il desiderio di una possibile cura ma con uno sguardo indagatore su ciò che non si conosce.