Nei giorni del dibattito infuocato sulla vicenda Stamina, mentre la rivista Nature torna a tuonare contro la politica scientifica italiana, medici e biologi da tutto il mondo sono convenuti a Milano per il dodicesimo convegno della Cell Transplant Society (CTS) per affrontare a largo spettro tutte le tematiche connesse con i trapianti cellulari e la medicina rigenerativa. Questa visione trasversale è coerente con la natura della CTS che, come ha detto a ilsussidiario.net il professor Livio Luzi, docente di Endocrinologia all’Università degli Studi di Milano e chairman del Convegno, «a differenza di altre società scientifiche che sono più settoriali, ha un interesse trasversale e tratta tutti gli aspetti sia della ricerca di base che delle potenziali applicazioni cliniche di tutte le patologie che possono richiedere un trapianto di cellule».



Perché parlate di medicina rigenerativa?

L’aggettivo mi sembra autodescrittivo. I trapianti di rene negli anni ’50 del secolo scorso ne sono stati il primo esempio, dove ad essere rigenerata era la funzione cui è preposto l’organo. Un altro esempio è il trapianto di porzioni cutanee nei grandi ustionati, dove viene restaurata la barriera fisica protettiva della cute. In teoria potremmo dire che si può rigenerare qualunque parte; tuttavia tengo a precisare che si deve parlare di medicina rigenerativa quando si rigenera la funzione, non solo l’aspetto strutturale, e in modo più vicino possibile alla fisiologia.



Quali sono i settori dove oggi si fanno sia ricerca di base che trial clinici sul trapianto cellulare?

Il diabete è il più avanzato: qui il trapianto cellulare si fa dalla fine dagli anni ’80 e nel caso del trapianto di isole pancreatiche i trial sono molto avanzati. Poi ci sono le neuroscienze, dove per il trapianto di cellule staminali nell’uomo ci sono primi trial nei casi di malattie particolarmente gravi quali la distrofia muscolare o la malattia di Huntington. Da alcuni anni si studia l’utilizzo di cellule staminali a livello cardiaco: ad esempio per la cosiddetta ventricolo-plastica, cioè il rimodellamento del ventricolo sinistro a seguito di infarto miocardico acuto. Altre applicazioni iniziali, descritte anche in questo convegno, riguardano il trapianto di cellule epatiche in situazioni dove l’unica alternativa sarebbe il trapianto di fegato. Qualche tentativo c’è anche per le cellule renali, per i casi di insufficienza renale; anche se qui il trapianto di rene è ormai una pratica diffusa, gravata solo dal problema, comune a tutti i trapianti d’organo, della scarsità di donatori. Il trapianto cellulare riguarda tutti i tipi di cellule; tra cui anche le staminali.



Tra le novità presentate in questi giorni ci sono le possibilità di utilizzo di nuove sorgenti di cellule staminali, vale a dire?

Come è noto, ci sono due grandi categorie di staminali: quelle somatiche e quelle embrionali. Su queste ultime, un po’ in tutti i Paesi europei, c’è l’embargo alla costruzione di nuove linee: quindi la ricerca è in standby, salvo quella in collaborazione con Paesi che non hanno tale restrizione. Per le somatiche, le più interessanti sono quelle autologhe, ovvero prelevate dallo stesso paziente ed eventualmente trattate per differenziarle e renderle specifiche per una data patologia.

Con quali vantaggi?

Il vantaggio è evidente: non c’è più bisogno di somministrare farmaci immunosoppressori che diminuiscono la risposta immunitaria. A mio parere, questa è la strada più promettente. Un esempio recente è quello del quale anche il vostro giornale ha parlato e riguarda il lavoro della collega Tiziana Brevini: il suo team ha utilizzato un farmaco antitumorale in commercio per far regredire delle comuni cellule cutanee per poi, con opportuni fattori di crescita e differenziazione, farle diventare cellule produttrici di insulina. Queste, impiantate in topi diabetici, hanno debellato la malattia. Il metodo, se proiettato nell’uso umano mostra ancor più i suoi vantaggi, derivanti dal fatto di essere in una situazione autologa. Dopo la scoperta della Brevini i nostri gruppi hanno iniziato subito a collaborare: dobbiamo anzitutto capire, nel caso umano, quali sono le cellule più semplici da trattare e da conservare. Ma la prospettiva è aperta; e può andare anche al di là del problema diabete.

 

Un altro tipo di cellule staminali sul cui reale ruolo applicativo state ancora ragionando sono quelle mesenchimali: come mai?

Le cellule mesenchimali sono ancor più primordiali di quelle embrionali e hanno il problema, comune a tutte le cellule poco differenziate, della possibile degenerazione neoplastica. Quindi una cellula può essere ben indirizzata nella direzione voluta – nell’esempio precedente, per fare insulina – ma c’è il rischio che poi una volta trattata vada a fare altro o possa moltiplicarsi in modo incontrollato generando un tumore. Questa è peraltro una problematica generale del trapianto cellulare: infatti c’è una collaborazione molto stretta tra noi e gli oncologi, oltre che per le possibili applicazioni del cell transplant nella lotta ai tumori anche, e secondo me soprattutto, per prevenire gli aspetti indesiderati del trapianto. Questi argomenti ci portano a interrogarci, più in generale, sui limiti delle attuali terapie disponibili.

 

Cosa possiamo dire?

Il limite principale è che, anche una volta che si è accertata la piena compatibilità, ogni volta che si fa un trapianto bisogna usare un immunosoppressore (il più vecchio ma ancora utilizzato è il cortisone); che però ha una serie di effetti collaterali, il principale dei quali è di indurre il diabete. In alcuni casi, dove c’è autoimmunità, quei farmaci hanno però anche una funzione positiva in quanto abbattono il problema dell’autoimmunità, evitando così la recidiva. Tutta la difficoltà sta allora nel trovare il giusto dosaggio.

 

L’eco della vicenda Stamina è, ovviamente, risuonato nei vostri dibattiti. Qual è il suo parere?

Le posso dire il mio parere personale, basato sulle informazioni che ho appreso dalla stampa scientifica nazionale e internazionale. Qualunque tipo di nuovo farmaco, qualunque nuovo intervento, se privo di un supporto scientifico solido non può essere considerato una possibilità terapeutica, non è una cura. Può accadere che nel singolo caso funzioni: ma bisogna vedere se funziona “per caso”, per una serie di peculiarità della situazione, oppure se è effettivamente un metodo; questo, solo una adeguata sperimentazione può assicurarlo. Con ciò non voglio dire che Stamina non funzioni: dico solo che attualmente non ci sono i parametri per attestarne la validità scientifica.

 

(Mario Gargantini)