Il fenomeno del Nino fu notato inizialmente da pescatori del SudAmerica, che si accorsero del riscaldamento inusuale delle acque adiacenti alla costa. Esso avveniva verso la fine dell’anno, esattamente come la nascita del bambino Gesù: da qui il nome spagnoleggiante el-Nino che la tradizione ci ha tramandato. Ora sappiamo che questo fenomeno di riscaldamento e raffreddamento periodico delle acque del Pacifico tropicale è uno dei fattori più importanti che regolano il sistema oceano-atmosfera a livello globale. Alla sua fase positiva si associa uno spostamento e rafforzamento del jet stream pacifico e una maggiore attività convettiva nella zona tropicale del Pacifico orientale.
Questi effetti tendono ad aumentare il rischio di inondazioni nel sud-ovest degli Stati Uniti, e portano solitamente a una diminuzione delle precipitazioni alle Hawaii. Contemporaneamente si registra uno spostamento verso est delle anomalie precipitative che caratterizzano la zona tropicale in periodi di Nino neutrale o negativo. Cosi l’area ad est dell’Oceania, associata usualmente ad abbondanti precipitazioni, si sposta verso il Pacifico orientale mentre il nord-est del Brasile va incontro a frequenti periodi di siccità.
Invero le conseguenze delle diverse fasi del Nino si possono osservare anche alle medie latitudini, in particolare durante l’inverno boreale. Non è raro sentire i meteorologi associare un periodo particolarmente freddo negli Stati Uniti o addirittura in Europa a condizioni pregresse del Nino. Tutte queste dinamiche, che in gergo sono chiamate teleconnessioni atmosferiche, sono studiate e ben conosciute, ma non facilmente riproducibili con accuratezza dai modelli climatici. Gli stessi modelli mostrano diverse incertezze nel predire il comportamento del Nino verso la fine del secolo, in risposta al riscaldamento globale.
In questo scenario si colloca lo studio di L. Jinbao et al. pubblicato di recente sulla rivista Nature Climate Change. Gli scienziati si avvalgono di tecniche paleoclimatiche, basate sullo studio dei tree-rings (anelli di accrescimento dei tronchi) di 2.222 alberi selezionati sia nei tropici che alle medie latitudini. Lo studio permette di ricavare una serie temporale dell’indice del Nino che spazia dal 1300 fino al presente, passando per la piccola era glaciale. Dall’analisi gli studiosi deducono un forte rialzo dell’attività del Nino durante il XX secolo, non riscontrabile nei 600 anni precedenti.
Tale comportamento viene correlato al bilancio radiativo atmosferico, che a sua volta é strettamente associato al riscaldamento globale tuttora in atto. Gli studiosi portano un esempio a supporto, identificando le maggiori 22 esplosioni vulcaniche avvenute ai tropici nel periodo in considerazione. L’ingente immissione di aerosol in atmosfera, oltre a modificare il bilancio radiativo, provoca un raffreddamento immediato nelle acque del Pacifico, a cui segue un netto rialzo nell’anno successivo. Questa indicazione rivela che il fenomeno del Nino é potenzialmente molto sensibile alla forzante radiativa.
Le implicazioni che ne seguono segnano uno spunto importante per la ricerca nel campo della scienza dell’atmosfera. La comunità scientifica è già al lavoro per migliorare i modelli climatici, e in particolare il comportamento del Nino durante le sue fasi positive e negative. Lo studio in questione ipotizza che una corretta simulazione della “sensitività” del fenomeno tropicale come risposta al riscaldamento globale sia dirimente per un netto miglioramento dei modelli a grande scala. Tale miglioria potrebbe potenzialmente portare a proiezioni climatiche più affidabili su scale decadali e multi-decadali.