Per tutti gli addetti ai lavori, o anche solo i semplici curiosi, i neofiti o per chi si ricordasse le lezioni di biologia del liceo ecco l’ennesima smentita al comune sentire che vede gli eucarioti come unica compiuta espressione della vita e relega i procarioti un gradino più in basso. Questo è stato riconfermato poche settimane fa, quando mi sono presentata per sostenere il primo scritto dell’esame di stato per la professione di biologo. Ho scelto il tema sulla comunicazione cellulare e, mentre mi arrovellavo il cervello per ricordarmi il funzionamento di molecole segnale, recettori e vari sistemi simpatici ho avuto un momento di incredibile lucidità: gli eucarioti non sono gli unici ad avere cellule che comunicano tra loro. I batteri hanno sviluppato sofisticati sistemi di interazione che permettono loro di organizzarsi in complesse società, dove ognuno ha il proprio compito o una particolare qualità che mette in comune con l’intera colonia. Questa bella intuizione ha dato un punto in più al mio tema perché sono stata l’unica a ricordarsene.



L’idea, che in quel momento mi sembrava geniale, è rimbalzata in un piccolo angolino quando sono venuta a conoscenza di un articolo, uscito su Plos One, che presentava uno studio interessante condotto da Omar El-Halfawy e Miguel Valvano sulla resistenza dei batteri agli antibiotici. Questa è una delle sfide più grandi per l’industria farmaceutica. Si è preso come modello un classico batterio opportunista, uno di quelli che si fa strada nei soggetti debilitati, Burkholderia cenocepacia che ha mostrato una dote veramente interessante: i batteri, organismi estremamente semplici, vanno incontro a mutazioni ad una velocità incredibile che li porta a produrre, a volte, amminoacidi modificati che li proteggono dall’azione biocida degli antibiotici. Che risorsa impagabile avere uno scudo da opporre al peggior antagonista! Come è facile immaginare, la probabilità che tutti gli elementi di una colonia possano esprimere, nello stesso momento, questa forma di difesa è bassissima, ma grazie ad un sistema di comunicazione tra le cellule estremamente efficiente basta che una piccola porzione della popolazione possieda lo scudo per poter diffondere la caratteristica a tutta la colonia. 



L’esperimento si è ampliato e sono state prese in esame altre due famiglie di batteri approfittatori che si trovano frequentemente nei soggetti affetti da fibrosi cistica: Escherichia coli e Pseudomonas aeruginosa. Loro sono i “vicini” di B. cenocepacia e riescono a sfruttare la copertura, come se si stringessero sotto i bastioni di una fortezza. Emerogno, così, le terribili complicazioni che affliggono i malati di fibrosi cistica. Questa scoperta ha dato una nuova sferzata di energia alla ricerca farmaceutica, che non può permettersi neanche il minimo rallentamento per poter stare al passo con l’inarrestabile corsa all’adattamento dei batteri.



Nonostante i terribili risvolti io continuo a rimanere affascinata da questi organismi che, seppur piccoli, poco evoluti, procarioti, riescono a districarsi nel complicato mondo in cui coesistiamo. Come per i pittori inglesi del “sublime” non riesco a distogliere lo sguardo dai batteri e provare a comprendere i delicati equilibri e le incredibili contraddizioni che circondano la loro intensa vita unicellulare.