Sarà al suo terzo Meeting, ma con lui non c’è il pericolo di annoiarsi: la vastità di interessi di Paul Davies è notevole e spazia dalla fisica alla matematica, dalla cosmologia all’astrobiologia. Come pure è ampiamente riconosciuta la sua abilità comunicativa, che lo porta in giro per il mondo in tournée di affollate conferenze e che si è tradotta in una lista smisurata di libri e pubblicazioni varie. Il suo ultimo libro divulgativo, Uno strano silenzio, parte dall’antica domanda “siamo soli nell’universo?” per poi chiedersi, di fronte all’improbabilità di tale condizione, “ma allora, dove sono gli alieni?”. Il saggio rispecchia la sua attuale attività di Co-Direttore del Cosmology Initiative presso l’Arizona State University e di membro del celebre programma di radioastronomia Search for ExtraTerrestrial Intelligence (SETI) e offre una prospettiva originale rispetto a tante cose che si dicono sulla ricerca di ET.



Davies ritiene che finora abbiamo cercato gli extraterrestri in modo non adeguato, limitandoci alla caccia di possibili segnali elettromagnetici senza considerare che la tecnologia di un’eventuale civiltà aliena potrebbe essersi evoluta al punto di sperimentare altre possibilità o di modificare in modo riconoscibile i pianeti di origine.



Il nuovo libro riprende anche parte di quanto diceva proprio al Meeting nel suo primo intervento nel 2003 rispondendo all’interrogativo “perché l’universo favorisce la vita?”: allora aveva presentato diversi esempi a dimostrazione che se nell’universo le cose fossero andate diversamente non ci sarebbe vita; e aveva concluso affermando che anche con le più avanzate teorie che cercano di giustificare questo universo “bioamichevole” non possiamo evitare di introdurre un elemento di progetto o di finalità cosmica.

Prima di concentrarsi sull’astrobiologia, Davies si era cimentato più volte sull’argomento del quale parlerà al Meeting mercoledì prossimo: “La natura del tempo, nella scienza e nell’esperienza umana” (ne discuterà col fisico spagnolo José Ignacio Latorre e con l’astrofisico Marco Bersanelli). Nel 1996 aveva pubblicato I misteri del tempo, dove aveva iniziato a esplorare quel vertiginoso “abisso” che si spalanca tra il tempo che crediamo di percepire e pensare e quello misurato sperimentalmente dai fisici. E agli inizi del millennio si era spinto sul tema della macchina del tempo, cercando di trasportarla dal terreno della fantascienza a quello della scienza contemporanea. Così, ad esempio, nel 2002 spiegava ai lettori della rivista Le scienze “Come costruire una macchina del tempo”, riassumendo le indicazioni contenute nell’omonimo libro appena pubblicato in America (che sarebbe poi uscito in Italia l’anno successivo).



Lo scenario di viaggi nel tempo che Davies ritiene più “realistico” è quello basato sul concetto di cunicolo (wormhole) spazio-temporale, già elaborato nella metà degli anni Ottanta e utilizzato da Carl Sagan nel romanzo Contact dal quale è stato ricavato il celebre film con Jodie Foster. «Nella fantascienza – spiegava Davies – i cunicoli sono a volte chiamati “portali stellari” (stargate). Sono a tutti gli effetti scorciatoie che congiungono due punti dello spazio separati da grandi distanze: entrando in un ipotetico cunicolo, si può uscirne poco dopo all’altro lato della galassia. I cunicoli si integrano senza problemi nella teoria della relatività generale, secondo la quale la gravità modifica non solo il tempo ma anche lo spazio. La teoria consente l’analogo di collegamenti alternativi, per strada e per galleria, fra due punti nello spazio».

La macchina del tempo progettata da Davies parte da un acceleratore di particelle in grado di creare un cunicolo virtuale che poi viene stabilizzato sfruttando l’effetto Casimir, col quale si immette energia negativa portando il cunicolo a dimensioni accettabili e impedendo che si trasformi in un buco nero. Per adattare il cunicolo al viaggio nel tempo, lo scienziato propone di trainarlo in prossimità di una stella di neutroni così «la gravità della stella rallenterebbe il tempo nei pressi dell’imbocco, cosicché fra le due estremità del cunicolo si accumulerebbe gradualmente una differenza di tempo. Se entrambe le estremità fossero poi “parcheggiate” in punti convenienti dello spazio, questa differenza di tempo resterebbe congelata».

Nonostante queste incursioni nella fantatecnologia spaziale, Davies è pur sempre un fisico teorico e non ama la iperspecializzazione: preferisce le ampie visioni e gli scenari generali, purché poggino su solide basi matematiche e sui risultati delle ricerche più recenti. Ce lo aveva testimoniato qualche anno fa, descrivendo così – in un’intervista a Emmeciquadro – il “mestiere del fisico”: «Se qualcuno mi chiedesse cos’è la fisica, direi che è un tentativo di svelare i segreti della natura. E direi anche che è un’attività comunitaria: non si tratta solo di singoli scienziati che si concentrano su certi fenomeni e cercano di scoprire cosa succede, ma di un’attività più ampia, per personalità vivaci, che amano il lavoro di squadra. E tutti sono affascinati da questo mondo straordinario: un mondo reale, al quale sottostanno principi razionali che non vediamo immediatamente. Quando camminiamo per la strada non vediamo la legge dell’inverso del quadrato della gravitazione: non la vediamo, ma è un fenomeno reale e per scoprirlo non possiamo restare alla superficie del fenomeno; dobbiamo guardare al substrato nascosto della natura. È come decodificare un certo tipo di messaggio. Penso che tutti gli scienziati credano in questo mondo razionale, che possiamo arrivare a capire tramite la ragione».

Lo aveva ribadito nel suo precedente passaggio al Meeting (nel 2007), chiamato a confrontarsi su “scienza, ragione, verità”: «Cosa ci spinge a portare avanti questo lavoro? Beh, devo dire di essere egualmente affascinato dalle cose che studio oggi come lo ero quando ero adolescente. Gli scienziati sono come dei bambini: si guardano attorno con meraviglia, con stupore. Tanti escono da questo stadio di fanciullezza e non hanno più questo stupore, io invece ho sempre pensato che il mondo sia affascinante, misterioso. La cosa incredibile è che questo mistero può essere rivelato, è possibile entrare in questo mistero utilizzando gli strumenti scientifici, il nostro intelletto, è possibile spostare le frontiere, è possibile arrivare a capire perché ci sono certi fenomeni nel mondo. È possibile arrivare a rivelare questo mistero: questo è il grosso interesse della scienza. La scienza non è una materia finita, come un evento trascorso che viene trasmesso da una generazione all’altra: la fisica, le scienze sono discipline viventi, ci sono ancora tante cose che dobbiamo scoprire. Credo che la cosa che più mi spinge verso nuove scoperte è che più invecchio più sento di voler continuare. Certamente c’è anche un lato noioso: devo scrivere sempre più lettere, far parte di sempre più comitati, avere sempre più relazioni con gli altri… ma non c’è assolutamente un affievolirsi di quella scintilla con la quale sono nato e con la quale credo morirò: è la mia vita. È il mio “destino”, per usare la parola che è nel titolo del Meeting: io credo che lavorare in questo ambito sia il mio destino».

Il passaggio di testimone col titolo del Meeting di quest’anno è più che evidente.

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