Difensori acritici di una tecnoscienza che procede sulle vie di un nuovo scientismo che annulla l’uomo oppure oppositori ipercritici di questa modalità di conoscenza, che non è più vista come “un modo per rendere grazie a Dio”? Né l’uno né l’altro estremo, ci dice il filosofo francese Oliver Rey, dopo aver presentato al Meeting di Rimini il suo ultimo libro “Itinerari dello smarrimento. E se la scienza fosse una grande impresa metafisica?” (Ares). E lo dice un filosofo come lui, che ha alle spalle una laurea al Politecnico di Parigi, ha ottenuto un dottorato in matematica per poi entrare nel dipartimento di Filosofia del Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs) e infine approdare all’Università Panthéon-Sorbonne, dove ora insegna. L’alternativa posta gli ricorda l’affermazione del fisico e premio Nobel Jean Perrin, che partecipando all’inaugurazione del Palais de la Decouverte a Parigi nel 1937 aveva auspicato che tutte le Chiese in Francia potessero essere sostituite da edifici come quello.
«Affermazioni del genere alimentano facilmente la reazione negativa di chi pensa che la scienza sia completamente da rifiutare. Ma le due posizioni indicate non sono che due facce della stessa medaglia. Mettere la scienza al giusto posto non vuol dire imporle dei limiti ma permetterle, magari a lungo termine, di esprimersi ancora al meglio». Certo, Rey è più sensibile a questi dibattiti venendo da un Paese come la Francia dove la Repubblica ha visto la Chiesa come sua nemica e ha spesso utilizzato la scienza come sua alleata in tale competizione. «Si è quindi diffusa l’idea che scienza e religione siano rivali, mentre a me sembra che non ci sia nessuna ragione filosofica per sostenere tale opposizione». Secondo alcuni il punto di forza della scienza sarebbe la maggior aderenza ai fatti, alla realtà, in base al suo collaudato metodo sperimentale. Ma anche qui le cose vanno considerate più attentamente.
«C’è un malinteso frequente circa la scienza e la scienza moderna in particolare: il fatto è che la scienza non parla direttamente del mondo ma parla piuttosto del suo rapporto operativo col mondo. Bisogna distinguere tra esperienza ed esperimento: ciò che la scienza sperimentale fa è cercare l’accordo tra i propri modelli teorici e la realtà. È un metodo molto potente, che ha dato e dà risultati straordinari. Non è detto però che ci possa dare una maggior familiarità con le cose, con la realtà che incontriamo nella esperienza quotidiana». Rey non intende affatto demonizzare il metodo sperimentale; quello che critica è la pretesa, sbandierata da molta scienza, di detenere, in forza di quel metodo, il monopolio della conoscenza. Inoltre il matematico-filosofo francese sottolinea l’importanza di non perdere il contatto con la realtà e in questo la scienza contemporanea non sempre aiuta e comunque non basta. Racconta divertito di come capiti frequentemente di incontrare genetisti che sanno tutto sulla biochimica delle piante ma poi se passeggiate con loro non sanno riconoscere un albero o un fiore.
Qui il discorso va rivolto anche ai sistemi educativi «oggi erroneamente caratterizzati da una anticipazione precoce dell’attività sperimentale. I bambini invece hanno bisogno di partire dall’esperienza diretta della realtà che incontrano, di riconoscere gli elementi degli ambienti in cui vivono, di saperli descrivere». Ciò di cui hanno più necessità è di “imparare l’attenzione”, l’osservazione precisa, puntuale e appassionata: «questo, e non un surrogato di attività sperimentale, è formativo anche in vista di una futura professione scientifica». In proposito ricorda l’episodio raccontato dal grande matematico Augustin Cauchy relativo alla sua infanzia: suo padre, accortosi della predisposizione del bambino per la matematica, aveva chiesto al grande scienziato Joseph-Louis Lagrange come fare a coltivare quelle doti; il consiglio di Lagrange era stato di non farlo accostare alla scienza fino a 16 anni e di fargli studiare le lingue e le letterature classiche.
«Se guardiamo al ruolo di Cauchy nella storia della matematica, dobbiamo dire che mai consiglio fu più prezioso». Un analogo esempio vale per l’utilizzo degli strumenti informatici e multimediali nei primi stadi del percorso scolastico: «Dovrebbe far riflettere il caso di alcune scuole della Silicon Valley frequentate dai figli dei manager delle multinazionali dell’Information Technology, dove sono vietati smartphone, tablet e social network». Non si tratta, ribadisce Rey, di prendersela con la scienza: bisogna prendersela col ruolo inappropriato che le è stato attribuito. Nello stesso tempo è possibile valorizzare in pieno tutto quello che la scienza può dare, evitando però le trappole del nuovo scientismo; e la strada per questo è quella di una ragione “ordinata”. «Chi pensa di rispondere con la scienza a domande fondamentali relative all’uomo, alla vita, al senso di tutto, è nella più completa irrazionalità. Essere razionali non significa pretendere che la ragione risponda a tutto. È piuttosto saper riconoscere ciò che non rientra nel proprio ambito di competenza. Pascal distingueva tre ordini: quello dei corpi, che riguarda la materia; quello dello spirito, che riguarda tutto ciò che è intellettuale; quello della carità. Ogni ordine, ogni ambito ha la sua precisa legittimità. Quando la scienza esce dal suo ambito non è il trionfo della ragione ma il suo naufragio».
(Michele Orioli)