La distinzione tra naturale e artificiale, da sempre una della più fondamentali e almeno apparentemente delle più chiare, si trova oggi in una ben strana situazione. Da un lato infatti assistiamo a una esaltazione senza precedenti di tutto ciò che è o si presenta come naturale (anche nel campo dei valori e dei comportamenti, ma qui non insisterò su questo), che viene presentato come intrinsecamente positivo e spesso quasi divinizzato, in contrapposizione a tutto ciò che è prodotto dalla tecnologia, vista come intrinsecamente cattiva, in quanto rivolta al dominio e allo sfruttamento della natura stessa e degli altri esseri umani.
D’altro lato assistiamo a una opposta e simmetrica esaltazione e quasi divinizzazione della tecnologia, vista come strumento di liberazione dell’uomo dalla sua condizione di asservimento alle bizze di una natura ostile o quantomeno indifferente, che si spinge spesso fino al punto di negare ogni distinzione tra naturale e artificiale e quindi ogni limite allo sviluppo e all’applicazione della tecnologia stessa (a parte quello della sua fattibilità pratica), fino ai veri e propri deliri del “transumanesimo”, che pretenderebbe di “riprogettare” radicalmente su base tecnologica l’essere umano e il suo ambiente (il che nei casi più estremi significa addirittura l’intero universo).
A ben vedere, tuttavia, questi due atteggiamenti, in apparenza opposti ed eterogenei, in realtà non sono altro che due facce della stessa medaglia, ovvero del “manicheismo” intrinseco al pensiero moderno, che ormai da diversi secoli (diciamo da Cartesio in poi) è incapace di pensare l’essere in maniera analogica e riesce quindi a concepire le relazioni, tanto tra le cose che tra le persone, solo in termini di assoluta e meccanica identità o di non meno assoluta e meccanica contrapposizione.
L’altro aspetto che spesso confonde le idee (e che di nuovo entrambi i suddetti atteggiamenti condividono) è il fatto di cercare la differenza al livello delle cose, paradossalmente ragionando ancora in termini pregalileiani, come se quelle naturali dovessero avere una diversa “essenza” rispetto a quelle artificiali.
Ma la tecnologia, anche se si serve di cose, non è una “cosa: è un processo. E se guardiamo appunto al processo di produzione anziché al prodotto finito, non è difficile accorgersi che la distinzione suddetta non può essere accantonata a cuor leggero, benché certo sia oggi più sfumata che in passato. È vero infatti che la tecnologia sfrutta possibilità presenti all’interno della natura, tuttavia lo fa in modi e gradi diversi (analogicamente, appunto). Possiamo quindi distinguere almeno cinque diversi significati di “artificiale”, a seconda che la natura venga modificata dall’uomo:
1) provocando intenzionalmente, per i propri scopi, un fenomeno che si verifica spontaneamente in natura (esempio: l’irrigazione dei campi);
2) amplificando, come entità e/o come velocità, un fenomeno che si verifica spontaneamente in natura (esempio: l’induzione di mutazioni nelle piante da coltivazione);
3) utilizzando un fenomeno che si verifica spontaneamente in natura in un contesto diverso, in cui senza l’intervento umano non si verificherebbe mai (esempio: l’ingegneria genetica);
4) sfruttando le leggi naturali per produrre oggetti che in natura non verrebbero mai generati spontaneamente (esempio: qualsiasi tipo di macchina);
5) sfruttando le leggi naturali per produrre oggetti che in natura non verrebbero mai generati spontaneamente e che in aggiunta la natura non riesce neanche a distruggere spontaneamente – o, più esattamente, riesce a distruggere solo con grande fatica: perché alla fine tutto si distrugge (esempio: la plastica).
Ora, è semplicemente un fatto che ciascuno di questi passi modifica sempre più profondamente la natura e, in questo senso, “ci allontana” sempre più da essa: ciò quindi non può e non deve essere negato, anche se la sua valutazione è un altro discorso.
Non si può infatti automaticamente ritenere che ciò sia un male, come vorrebbe l’ecologismo radicale, che però dimentica che anche l’intelligenza umana, da cui nasce la tecnologia, è un fenomeno “naturale”, mentre d’altro canto è semplicemente cieco di fronte a tutti quegli aspetti della natura (e sono molti) che ci causano disagio, sofferenza e morte e che quindi è certamente lecito e anzi doveroso cercare di correggere.
D’altro canto, però, anche l’idea scientista che il rispetto dell’ordine naturale delle cose non abbia nessuna rilevanza morale è altrettanto erronea, in generale e non solo rispetto alla manipolazione della natura umana (a cui spesso il problema viene ridotto), come dimostrano i tanti disastri ecologici che tale mentalità ha causato, perché si basa, quantomeno implicitamente (ma spesso anche esplicitamente), su un’interpretazione nichilista dell’evoluzione, che vede la realtà come il frutto di un cieco caso e quindi priva di qualsiasi significato all’infuori di quello che arbitrariamente decidiamo di darle.
Se quindi non vogliamo trascurare nessuno dei fattori in gioco, sembra inevitabile concludere che da un lato nella realtà è indubbiamente all’opera una grande Ragione, che si presenta fondamentalmente come positiva e ci ha concesso, fra l’altro, di poter comprendere e in parte anche modificare il mondo a nostro beneficio; ma d’altro canto, per un motivo misterioso che solo nella croce di Gesù Cristo è diventato almeno in parte comprensibile (e soprattutto vivibile), chi ha fatto il mondo ha voluto che l’essere si realizzi nel sacrificio, fin dal suo livello più elementare e non cosciente.
E se è giusto usare tutte le risorse che lo stesso Autore del mondo ci ha dato per ridurne, almeno in parte, la durezza, non dobbiamo però commettere l’errore fatale di pretendere di eliminarla del tutto: perché, così come non ci riuscirà la politica, neanche la tecnologia riuscirà mai a costruire «sistemi così perfetti da rendere inutile agli uomini essere buoni» (T.S. Eliot).