I satellite geostazionari, dai quali dipendono molte delle attività di comunicazione terrestri, non vivono una vita facile; e le loro difficoltà possono incidere pesantemente su una società come la nostra che dalle comunicazioni dipende in modo smisurato. Si tratta di satelliti, come è noto, che orbitano in sincrono con la rotazione della Terra e quindi rimangono al di sopra di una stessa posizione per tutto il loro ciclo di vita. Sono veicoli progettati per durare fino a quindici anni, durante i quali però sono soggetti a molte minacce: possono infatti essere bombardati da particelle cariche e da varie radiazioni elettromagnetiche in conseguenza di fenomeni che avvengono continuamente nello spazio interplanetario, come i brillamenti solari, le tempeste geomagnetiche, il vento solare.



Conoscere meglio tutti questi fenomeni e i loro effetti diventa dunque decisivo non solo per migliorare l’attività delle flotte attuali, ma anche per poter progettare meglio la prossima generazione di satelliti di comunicazione e le loro apparecchiature, rendendoli più efficienti e resistenti. A questo scopo è stata indirizzata una ricerca ad opera di un team di scienziati del MIT di Boston e i cui primi risultati sono appena apparsi sulla rivista Space Weather. I ricercatori hanno analizzato le condizioni ambientali spaziali nel momento corrispondente a 26 episodi di malfunzionamento di otto satelliti geostazionari verificatisi in oltre 16 anni di funzionamento.



Nella maggior parte dei satelliti l’elettronica sensibile viene salvaguardata da strati di schermatura protettiva, ma nel corso del tempo le radiazioni possono penetrare e degradare i componenti e quindi le prestazioni del satellite. Ciò che gli scienziati del MIT hanno scoperto è che la maggior parte dei guasti sono avvenuti in tempi di attività degli elettroni ad alta energia durante la fase calante del ciclo solare. Questo flusso di particelle può essersi accumulato nei satelliti nel corso del tempo, creando una situazione di carica elettrica che ha danneggiato gli amplificatori. componenti chiave delle trasmissioni, responsabili del rafforzamento e dell’inoltro dei segnali verso la Terra.



Se si pensa a come stanno crescendole esigenze della comunicazione moderna, si intuisce la gravità della situazione: gli utenti chiedono sempre maggiori capacità, aumentano le trasmissioni video-in streaming, si vuol comunicare con velocità di trasferimento dati sempre più elevate; di conseguenza il design delle apparecchiature sta cambiando e la suscettibilità alla cosiddetta “meteorologia spaziale” sta diventando sempre più un fattore critico.

Già oggi gli ingegneri aerospaziali progettano i satelliti avendo ben presente il problema: ad esempio, utilizzano modelli di radiazione per prevedere quale può essere l’esposizione sopportabile da un satellite per tutta la sua durata. L’esposizione alle radiazioni peraltro può variare a seconda dell’orbita: per esempio, alcune orbite sono più pericolosi di altre, quindi per i veicoli destinati a tali orbite si scelgono i componenti che possono sopravvivere e operare in simili condizioni.

Ma la meteorologia spaziale è molto più dinamica rispetto a quanto predetto dai modelli e ci sono molti modi diversi in cui le particelle cariche possono rovinare l’elettronica di un satellite. Tra l’altro, osservano al MIT, «la questione è delicata anche perché in questi casi quando qualcosa va storto non si può riportare indietro il satellite per analizzarlo e capire cosa è successo». Un’ulteriore complicazione, sottolineata dai ricercatori, è una certa difficoltà di dialogo tra gli ingegneri aerospaziali e la comunità degli operatori delle previsioni meteo spaziali.

Ora, il lavoro sistematico svolto dal gruppo del MIT può segnare un punto di riferimento e una base per ulteriori sviluppi. Gli scienziati, in collaborazione con la società di telecomunicazioni Inmarsat, hanno analizzato più di 665 mila ore di funzionamento dei dati di telemetria raccolti da otto dei satelliti della società: dati comprendenti la temperatura e le misure di corrente degli amplificatori a stato solido. Hanno poi esaminato la correlazione con le condizioni spaziali corrispondenti a 26 anomalie verificatesi tra il 1996 e il 2012, la maggior parte delle quali erano state considerate guasti gravi e irreversibili che potevano portare ad un arresto temporaneo della navicella. Il team ha osservato le date e tempi di ogni guasto e quindi ha analizzato le condizioni ambientali che lo hanno prodotto, comprendendo l’attività solare e le tempeste geomagnetiche.

Più in dettaglio, è stato analizzato l’indice Kp, una misura dell’attività geomagnetica rappresentato su una scala da zero a nove: si è trovato che la maggior parte dei guasti agli amplificatori si è verificato durante i periodi di bassa attività geomagnetica, con un indice Kp minore o uguale a tre, un valore normalmente considerato sicuro; quindi l’indice Kp può non è quello significativo. Invece si è scoperto che molti amplificatori si sono interrotti durante i periodi di attività degli elettroni ad alta energia, un fenomeno che si verifica durante il ciclo solare che ha un periodo di 11 anni: il flusso di elettroni è più alto, come si è detto, durante la fase calante del ciclo solare.

La palla è ora ai progettisti. Non basta infatti che vengano predisposti amplificatori di riserva: per missioni dell’ordine dei 15 anni anche questi potrebbero guastarsi. D’altra parte non si può neppure abbondare nei sistemi di ridondanza, per evidenti motivi di costo. Resta allora l’antico e prezioso criterio di un sano equilibrio tra protezione e costi; ma per questo le analisi e i modelli matematici sono importanti ma non sufficienti.