A 15 anni (settembre 1998) dalla pubblicazione della stupenda enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio, il suo messaggio appare quanto mai attuale laddove suggerisce che la fede non è un intralcio alla ragione e alla ricerca scientifica ma anzi è in grado di «provocare la ragione ad uscire da ogni isolamento e rischiare per tutto cio che è bello, buono e vero. La fede si fa avvocato convinto e convincente della ragione» (n.56). Così, l’interazione armonica tra ragione e fede diventa capace di valorizzare criticamente la conoscenza della realtà compreso ciò che riguarda il mistero della vita dell’uomo stesso. Per questo ogni nuova scoperta suscita sempre una grande meraviglia insieme a domande che riguardano il bello, il bene e il vero.
È quanto accade leggendo due recenti comunicazioni scientifiche (riportate dalla rivista Nature) circa le potenzialità delle cosiddette cellule staminali pluripotenti indotte o Induced Pluripotent Stem Cells (iPSC) per le quali il giapponese Yamanaha si è guadagnato il premio Nobel nel 2012. Una riguarda la formazione in vitro di strutture cellulari neurali complesse che molti media hanno enfatizzato parlando di “cervello in vitro” (del resto suggerito dal titolo stesso di Nature “cervelli in minitura”). In realtà si tratta di una proliferazione cellulare certamente ordinata e stratifica a mimare alcune parti cerebrali ma lontana anni luce dalla organizzazione e dalla funzione di un cervello.
L’aspetto forse sfuggito a molti è che questi studi sono stati fatti in parallelo con cellule di embrioni umani. È noto infatti che con la tecnica delle iPSC si induce l’espressione di alcuni geni in una cellula adulta per ottenere una cellula pluripotente che ha un comportamento simile a quelle di una cellula embrionale; quindi questa metodologia è stata salutata con giusto entusiasmo non solo per la grande portata biologica ma anche perché rappresenterebbe una alternativa all’uso di embrioni umani. In realtà, anche dopo la scoperta della cosiddetta “via etica delle iPSc”, si continuano ad usare cellule pluripotenti di origine embrionale per confermare che la potenzialità delle iPSc è praticamente assimilabile a quella delle cellule di embrione.
Dell’altro commento di Nature nessun giornale ha parlato. Esso riguarda le nuove tecniche per ottenere gameti partendo da iPSc. Questi esperimenti sono stati fatti per ora solo su topi, dimostrando che gameti così ottenuti si possono fondere per generare nuovi individui. In questo caso i ricercatori enfatizzano il possibile utilizzo di queste tecnologie nelle situazioni in cui la fecondazione in vitro ha fallito oppure per ridare una condizione di fertilità a giovani che siano stati sterilizzati a seguito di pesanti trattamenti di chemioterapia antitumorale. Sebbene venga messa in dubbio l’attuale possibile applicazione umana di queste tecniche, bisogna considerare che la loro potenzialità è enorme e che sarebbe possibile ottenere gameti femminili e maschili dallo stesso soggetto per generare, come ammette il ricercatore, “qualcosa di mai visto fino ad ora”.
Di fronte a questi passi della tecno-scienza si avverte un senso di stupore, purtroppo però insieme a sconcerto dovuto alla percezione che la scienza non sfugga mai alla tentazione di affermare il suo potere sulla natura e sulla stessa persona umana.
Proprio Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica aveva messo in guarda da questo rischio «L’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di «alienazione», nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono esser diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire» (Redemptor Hominis, n.15).
Un avvertimento quanto mai attuale circa i progressi biologici soprattutto nel campo della cosiddetta biomedicina della quale molti sono poco disposti valutare i rischi che vedono solo nelle pratiche che riguardano manipolazioni nel campo agricolo e ambientali e non in quella della biologia umana. Se l’uomo, come affermano alcuni naturalisti, è solo una delle tante specie animali, è pure l’animale che sogna più di tutti gli altri. Al punto che spesso confonde i suoi sogni con le cose reali.
Ma al risveglio dai sogni ci si accorge che la realtà di tutti i giorni è diversa; ed è all’alba che abbiamo bisogno di speranze. Come ha scritto Benedetto XVI «noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano» (Spe Salvi, n.31). E come ha detto Papa Francesco in una recente omelia in Santa Marta «la speranza è un’altra cosa non è ottimismo, (…) La speranza è un dono dello Spirito Santo… e Paolo ci dice che la speranza ha un nome. La speranza è Gesu».