Abituati a continue notizie su nuovi ritrovati tecnologici e scoperte scientifiche, spe sso non ci lasciamo sorprendere dai piccoli ma significativi passi che la scienza produce e dai segreti meravigliosi che permettono certi progressi. È un po’ come se l’incedere della conoscenza scientifica fosse dato per scontato, un po’ come se sotto sotto ritenessimo che in realtà qualsiasi risultato in un tempo più o meno lungo sarà possibile. E questo rischia alla lunga di non farci più stupire di quello che gli scienziati spesso con grande fatica riescono a produrre o scoprire nella loro incessante attività di ricerca.



Uno dei campi che più risente di questa scontata fiducia nelle sorti progressive della conoscenza umana è quello della manipolazione della materia a livello nanoscopico. Le nanotecnologie, infatti, hanno preso grande piede negli ultimi vent’anni, promettendo mirabilia. E così si è iniziato a pensare a tutte le possibili applicazioni, a volte senza apprezzare fino in fondo le particolarità naturali e l’ingegno umano che le permettono.



Una ricerca condotta presso la Scuola di Chimica dell’Università di Sydney può essere uno degli ultimi esempi in questo senso. Un gruppo di nanotecnologi, guidato dal prof. Andrew Telford, è riuscito a produrre un metodo per controllare le caratteristiche a livello nanoscopiche delle superfici, permettendo di immobilizzare l’acqua in piccole goccioline. Un po’ come se questo ricoprimento sottile fosse una specie di nastro adesivo che cattura l’acqua. L’immaginazione immediatamente corre a cosa potremmo realizzare grazie a una tecnologia simile: fra le molteplici applicazioni, spiega Telford, si può per esempio pensare alla «prevenzione della condensa nelle cabine degli aeroplani, ma potrebbe anche essere utile per processare rapidamente semplici test medici su goccioline singole, avendo la potenzialità di offrire un numero molto ampio di test intercambiabili con attrezzature a basso costo e in aree remote del pianeta».



La sfida delle applicazioni è una chiamata irresistibile, tanto più che la tecnologia messa a punto dagli Australiani va ben al di là del controllo della singola gocciolina. Telford è chiarissimo: «altre straordinarie applicazioni sono oggetto di studio: se usiamo questa nanotecnologia per controllare come sia strutturata una superficie, possiamo influenzare come interagirà con l’acqua. Cioè a dire che noi saremo in grado di progettare una superficie che fa qualsiasi cosa tu abbia bisogno che faccia: una superficie che resta per sempre asciutta, che non necessita nessuna pulizia o che sia capace di respingere i batteri o anche di prevenire la formazione di muffa e funghi. Oppure potremmo manipolare la medesima struttura perché l’acqua defluisca molto rapidamente: questo tipo di ricoprimento potrebbe quindi essere usato su muri e tetti che si asciugano in fretta e che quindi potrebbero aiutare a raffreddare le abitazioni» e così via, immaginando e fantasticando possibilità sempre più intelligenti e utili, tanto più che «la scoperta del nostro gruppo è la prima che permette la produzione di particelle-lampone su scala industriale e siamo perciò in posizione da poter iniziare a produrre grandi quantità di queste particelle senza la necessità di costruire impianti o equipaggiamenti speciali».

Attenzione: ecco nelle ultime parole l’introduzione di qualcosa di inaspettato. Particelle-lampone? Cosa si intende con questo nome? La spiegazione è solo apparentemente semplice: tutte le superfici hanno a livello nanoscopico un certo grado di disuniformità, di corrugazione. Poter agire su queste caratteristiche permette di modificare certi comportamenti della superficie. Tradotto significa che gli scienziati hanno realizzato un ricoprimento di particelle nanometriche la cui forma ricorda quella dei lamponi. Le ammassano a migliaia, e questo garantisce l’effetto “nastro adesivo” alla superficie lavorata. Sembra una cosa strana e sorprendente – e in effetti lo è – ma le goccioline d’acqua interagiscono con questo tipo di superficie in modo diverso che su una superficie liscia. Si dividono e restano aggrappate a questa ruvida superficie in modo fortissimo, tanto che l’oggetto su cui si sono posate si possa mettere a testa in giù senza che se ne distacchino, mantenendo la loro forma sferica.

Un piccolo segreto permetterà dunque grandi possibilità tecnologiche: si può perciò pensare a quanto siano geniali gli scienziati che hanno avuto l’idea tanto esotica di accumulare lamponi nanoscopici per governare l’interazione fra superficie e acqua e benedire la loro immaginazione e la loro fantasia. Sarebbe un giusto tributo? Fino a un certo punto. Telford lo racconta senza remore: il punto di partenza non è stato l’ingegno del gruppo australiano, ma l’osservazione della natura, più precisamente l’osservazione dei fiori. I petali, infatti, sono estremamente idrorepellenti. L’osservazione ha portato a scoprire che il “segreto” della loro idro-repulsività è proprio la conformazione a livello microscopico della loro superficie. Gli scienziati non hanno fatto altro che replicare questo tipo di conformazione, usando fino in fondo le loro conoscenze di chimica e di fisica.

Ed ecco che in modo del tutto inaspettato il nostro percorso a ritroso, dalle conseguenze tecnologiche all’origine profonda dell’innovazione, ci porta a una scoperta affascinante: applicazioni tecniche estremamente sofisticate hanno un imprevisto legame con una cosa tanto apparentemente fragile quanto bella, come un fiore. Forse non proprio tutto si può fare con un fiore, come pensava Sergio Endrigo, ma nulla si può fare senza l’osservazione stupita e curiosa di quanto esiste, vero motore dell’intelligenza umana. Osservazione che, seppur analitica, non distruggerà mai la percezione della bellezza vista e incontrate nel reale, come acutamente osservava Richard Feynman: «la conoscenza scientifica in realtà dilata il senso di meraviglia, di mistero, di ammirazione suscitati da un fiore. La scienza può solo aggiungere; davvero non vedo come e che cosa possa togliere». Senza aver fretta di correre alle conseguenze pratiche, dunque, spesso la cosa più “utile” è proprio soffermarsi, stupiti, a osservare il dato.