È il momento della preparazione dei miei corsi universitari, ogni anno temi strutturali diversi, ma ogni anno un modo più accurato e più attento di affrontare le questioni ambientali, sotto angolature e prospettive sempre differenti e nuove, con un respiro culturale che si muove in parallelo con la maturazione della mia persona. C’è un punto del programma che a me piace trattare moltissimo, mi entusiasma, mi fa accalorare durante le lezioni e che ora vorrei brevemente raccontare, perché è il luogo in cui la mia sensibilità ambientale si misura con la mia umanità e con la mia capacità di trasmetterla ai miei allievi.
L’argomento riguarda la presentazione della città europea e del processo di urbanizzazione, non tanto come un programma di Geografia urbana da spiegare e da imparare, ma come un elemento complesso della realtà, che ha bisogno di essere sperimentato, affinché l’umanità, la cultura, l’intuizione dei miei studenti possa incrementarsi. Provo a presentare la scena: in aula ci sono 250 studenti che provengono quasi tutti dai 409 comuni della Calabria, con un totale di due milioni di abitanti, dove, come è noto, non esistono realtà urbane con ruoli funzionali e dove ogni comune ha un centro, più nuclei e case sparse disseminate un po’ ovunque. Per loro il termine città coincide, nel migliore dei casi, con Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria, ma per la maggior parte è un sostantivo lontano dalla loro esperienza, è un capitolo di un libro da studiare.
Mentre li affronto, ho l’impressione di essere velleitario nei loro confronti, mi sento imbarazzato come una foresta pluviale che tenta di dialogare con un frammento di deserto. So di avere una grande esperienza di realtà urbane: trent’anni a Milano, dodici a Roma, alcune settimane all’Avana, poi Pechino, Salisburgo e Vienna, Monaco e Amburgo, Stoccolma, Parigi, Lisbona, Madrid, Tunisi, Rabat, Bamaco, Praga… Quanta esperienza ho accumulato e quale urgenza avverto di comunicarla con le immagini, con i concetti di fondo, con le teorie sulla localizzazione e sul ruolo funzionale delle città…
Così, ogni lezione è un tentativo di appassionarli a una realtà che non conoscono secondo i canoni della scienza, che forse molti daranno per scontata ma che per me è, invece, il “sangue” dell’esperienza geografica, cioè il fattore determinante della modalità di essere “presenza umana” sul Pianeta, perché è la struttura portante e decisiva dello sviluppo, della cultura, dell’arte, della filosofia, della musica, dei modelli culturali, della bellezza possibile e della qualità di vita desiderabile.
A lezione provo a spiegare come si generano i modelli culturali all’interno del tessuto urbano e come la ricchezza prodotta dalla città dipenda dalla capacità di innovarsi continuamente e dall’arte di “fare” la città, che è propria dei suoi abitanti, del loro genio, della loro capacità di essere imprenditori, della loro passione per la bellezza delle forme e dei contenuti, del loro bisogno di non assuefarsi mai a nulla.
I ragazzi mi ascoltano, silenziosi e attenti, ma si percepisce che “sono fuori”, che per loro è un argomento astratto, esterno alla loro vita quotidiana, lontano da un senso del fare e dell’essere, è un disagio alieno allo svolgimento degli eventi che a loro interessano più direttamente: superare l’esame, avere qualche euro in tasca, il cellulare, la ragazza… Eppure io mi batto perché alcune intuizioni possano essere allocate nella normalità della loro vita quotidiana, anche se quest’ultima sembrerebbe essere totalmente priva di qualunque riferimento alla realtà urbana che tento di spiegare in aula: ogni volta mi domando il motivo di una mia affezione così importante a questo brandello della mia materia.
La risposta è spalmata all’interno di una coralità di urbanisti, di pianificatori, di geografi, di ambientalisti, di giuristi che, secondo accenti diversi e con pluralità di interpretazioni culturali e scientifiche, attribuiscono alla città il ruolo di essere luogo di meraviglia e di splendore per l’intero Pianeta, mentre ai cittadini spetta il compito di assumersi la responsabilità di creare la città, come opera d’arte vivente, con una capacità di giudizio sugli eventi, sulle persone, sulle opere monumentali o semplicemente edificatorie.
Occorre “ridefinire l’ambito della creatività – scrive Charles Landry, (City making, 2006, p. 6) – puntando molto più a dare libero sfogo a quella massa di creatività ordinaria, della vita di tutti i giorni, che giace dormiente in moltissimi di noi”.
Certo, vorrei che i miei studenti dessero libero sfogo alla loro creatività ma, da un lato sono inermi e nudi di fronte all’esperienza urbana, dall’altro sono inoculati di sieri televisivi a basso contenuto culturale. Trascorreranno alcuni anni e i più creativi andranno a lavorare in una città vera, quella di cui hanno sentito sussurrare a lezione, capiranno che la città è un luogo da amare per sé e per gli altri che la abitano e che il loro bisogno di bellezza e di armonia corrisponde, quasi inaspettatamente, alla loro capacità di “fare città” attraverso la passione per il proprio lavoro.