Chi svolge attività di ricerca può essere motivato da una serie infinita di aspetti della docta curiositas, che vive nella propria fisionomia culturale e che solitamente esprime attraverso il proprio lavoro e le proprie passioni. “La caratteristica fondamentale dello scienziato – afferma Albert Einstein – è la capacità di stupirsi, di meravigliarsi di fronte alla natura, come qualcosa di dato e misterioso” Come ognuno ha appreso dal proprio maestro, anche il mio punto di partenza, quando svolgo attività di ricerca, è la formulazione dell’ipotesi di lavoro, che richiede accuratezza, razionalità, sensibilità al tema da trattare. L’ipotesi iniziale, per ottenere attendibilità, non deve subire la trappola del pregiudizio, che, secondo Spinoza, “connota un atteggiamento di ottusità, prevenzione e indisponibilità ad accogliere il vero e il condizionamento, che la quotidiana esperienza sensibile esercita sulle menti umane, ostacolando il ragionamento”.



L’ipotesi deriva dall’esperienza diretta e dall’impianto culturale del singolo riguardo a quanto la letteratura scientifica, un po’ alla volta, ha offerto e considerato come assodato a livello internazionale. Di solito, questo processo di conoscenza si snoda secondo dinamiche tradizionali e, per questo, consolidate all’interno della metodologia di ricerca: ad esempio, nel mio campo d’indagine, le fonti bibliografiche, i dati, le immagini, la cartografia, il telerilevamento, le restituzioni satellitari, i GIS…. Jules Lagneau sosteneva che l’unica verità del pensiero e l’unico modo per essere sicuri di conoscere veramente il mondo è continuare a percepirlo nuovamente, continuare a sentire lo scontro con l’esistente, senza adagiarsi mai sulle idee acquisite, ma sopportando ogni giorno lo sforzo del pensiero. Ma il ricercatore avverte la necessità di sperimentare direttamente la credibilità dell’ipotesi iniziale analizzando uno o più elementi pilota, paradigmatici di un sistema ambientale più complesso, perché desidera vedere i luoghi, incontrare le persone che li abitano, frequentare, anche solo brevemente, i tratti più rilevanti delle tradizioni locali, osservare lo svolgersi della vita ecc.



Che cosa accade nella sua memoria e nella sua esperienza durante l’approccio diretto alla realtà e come si modifica la sua cultura attraversando contemporaneamente la linea tracciata all’interno della prassi metodologica e quella dell’osservazione diretta, destinata a smontare o a sostenere l’ipotesi iniziale? Immaginando che il ricercatore intenda svolgere la propria attività al di là delle contingenze, spesso “obbligatorie” dell’università (pubblicazioni, sostegno alle posizioni non proprie, ma della scuola di appartenenza, produzione di carta stampata senza capo né coda ecc), ho provato a chiedermi in che termini si evolva l’individuo durante lo sviluppo e alla conclusione di un lavoro di ricerca.



L’esperienza compiuta in che senso appartiene a chi l’abbia vissuta? Cioè che tipo di riscontro umano, tecnico, scientifico, culturale, spirituale va a insediarsi nei transetti dell’esperienza della persona?Oppure quasi tutto si conclude con la consegna del lavoro alle stampe, liberandosi così di un fardello corposo, ma inadeguato a soddisfare il proprio desiderio di conoscenza? Poi si ricomincerà da un altro problema…. Quello che ho incontrato come geografo visitando il territorio, guardando gli oggetti, localizzandoli, raccogliendoli secondo la logica sistemica, è segno di una novità che tento di incastrare in una visione del mondo, oppure posso certificare un mio cambiamento dipendente dall’esperienza acquisita? Il cambiamento della dimensione culturale del ricercatore quando avviene? e sulla base di quali input? e poi, con quali connotati si attua?

 

Si tratta, forse, di un passaggio da una condizione di relativa ignoranza su un determinato fenomeno a una serie di fasi di processo del fenomeno stesso, attraverso valutazioni progressive in grado di rendere più evidenti i fattori costitutivi dell’evento che si sta studiando? A mio parere, se accade un cambiamento in chi osserva la realtà secondo un metodo scientifico, significa che è mutato il nostro modo di guardare e, se è davvero cambiato, non possiamo fare altro che riconoscere il valore dello sguardo, la cui consistenza è insita in una sorta di riscontro di ciò che un po’ alla volta diventa evidente, ma anche di una corrispondenza con la propria natura. È come se, per alcune specifiche sperimentazioni realizzate in ambito scientifico, fosse possibile percepire, nonostante la frammentazione degli oggetti esaminati, la loro appartenenza ad un unico sistema di riferimento, di dimensioni straordinarie, inarrivabili, se non per lampi di luce, rispetto al quale si avverte il significato della dipendenza dell’essere umano, così fragile, ma così stupefacente nella intuizione del pensiero rivolto a ciò che non può sperimentare, ma che sa esistere nella realtà. La visione antropocentrica, forse positivamente pensata per porre al centro dello sguardo l’esperienza razionale dell’essere umano, sembra lasciare sempre più spazio a un’idea di ciclicità processuale, dove la conoscenza è perennemente innescata da una curiosità, dilettantistica o geniale, a seconda degli individui, che tuttavia alimenta il motore della ricerca scientifica e, più in generale, quello della vita quotidiana.

 

L’impronta, dunque, credo sia disegnata negli itinerari della ragione che, oltre ad elaborare teorie e metodi per formulare criteri di giudizio, dispone di uno sguardo sulla realtà che si rinnova e si rigenera ogni volta che l’essere umano sia affascinato dalla bellezza di un evento, di un oggetto, di un’avventura, di una persona. “Se Dio tenesse chiusa nella mano destra tutta la verità e nella sinistra solo il desiderio sempre vivo della verità e mi dicesse: “scegli!” Sia pure a rischio di sbagliare, per sempre e in eterno mi chinerei con umiltà sulla sua mano sinistra e direi: Padre, dammela! La verità assoluta è per te soltanto” (Gotthold Ephraim Lessing, Eine Duplik, 1778).