Sarà perché il termine stesso “antimateria” evoca scenari futuribili e fantascientifici, sarà perché da un po’ di tempo tutto quello che proviene dal Cern di Ginevra si carica subito di curiosità e di grandi aspettative; fatto sta che anche questa notizia del primo fascio di atomi di anti-idrogeno prodotto nei laboratori del centro ginevrino ha fatto rapidamente il giro del mondo nel web, nei TG e via via su tutti i media.



In realtà la “notizia” era quella della pubblicazione di un articolo scientifico sulla rivista Nature Communications, che riportava i risultati di un esperimento condotto al Cern nell’ambito della collaborazione Asacusa nel 2012 e i cui dati sono stati elaborati e analizzati durante lo scorso anno. Ciò non toglie che l’interesse per tali risultati sia enorme e che effettivamente il passo compiuto dai fisici che vi hanno partecipato sia di grande rilevanza.



Asacusa, letteralmente Atomic Spectroscopy And Collisions Using Slow Antiprotons, è una collaborazione internazionale – alla quale l’Italia partecipa con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) – che utilizza il deceleratore di antiprotoni del Cern per studiare in vari modi l’antimateria. L’antimateria è una forma di materia nella quale alcune proprietà delle singole particelle compaiono invertite: ad esempio l’antiparticella dell’elettrone, detta positrone, ha carica uguale ma di segno opposto a quella dell’elettrone. Quando una particella incontra la sua antiparticella si annichila; ed è quello che dovrebbe essere accaduto nei primi istanti dell’universo, quando tutto era riempito da una miscela di particelle e antiparticelle. Tutta la materia che attualmente osserviamo e di cui siamo fatti è dovuta a un piccolo eccesso di materia rispetto all’antimateria primordiale: questa “asimmetria” originaria è uno dei più intriganti misteri della cosmologia.



Uno degli autori dell’esperimento – e dell’articolo “A source of antihydrogen for in-flight hyperfine spectroscopy” – è Luca Venturelli, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e dell’Università di Brescia e coordinatore del gruppo italiano in Asacusa. Ilsussidiario.net lo ha raggiunto per commentare con lui il significativo risultato.

Perché è così difficile produrre e soprattutto conservare l’antimateria?

In realtà il nostro gruppo non produce genericamente antimateria: questa produzione ormai è un’attività quasi di routine al Cern. Noi produciamo antiatomi e più precisamente anti-idrogeni, vale a dire insiemi di un antielettrone e un antiprotone; a tale scopo utilizziamo dei fasci di antimateria già prodotti dal Cern. La nostra difficoltà sta nel formare gli anti-atomi e più ancora nel tenerli lontani dalla materia ordinaria per evitare che, nel contatto, materia e antimateria si annichilino. Ciò che facciamo quindi è trasferire gli antiatomi dall’area di produzione in un’altra zona distante qualche metro per poterli poi esaminare e studiare.

Per questo dovete confinarli in un campo magnetico?

Non esattamente. Sarebbe possibile anche questo confinamento, sfruttando il fatto che l’antiatomo ha particolari proprietà magnetiche. Noi però usiamo campi magnetici variabili per muovere gli anti-idrogeni lungo un tubo cilindrico per portarli in una zona lontana dai campi magnetici intensi presenti nell’area di produzione e quindi al riparo dalle perturbazioni che ostacolerebbero le misure. 

Anche la produzione di antiatomi è già stata realizzata: qual è la novità del vostro esperimento?

C’è un esperimento, allestito proprio accanto al nostro, che è riuscito a intrappolare gli antiatomi confinandoli per un migliaio di secondi per poi studiarli usando luce laser. La nostra tecnica è un po’ diversa; noi non li intrappoliamo ma li lasciamo fluire lungo il nostro cilindro: quando arrivano in una certa posizione, li irradiamo con delle microonde. A quel punto possiamo misurare la differenza di energia tra due livelli dell’antiatomo e confrontarla col valore già noto con grande precisione nel caso del normale atomo di idrogeno. Il tutto naturalmente, stando ben attenti a tenerli lontani dalle pareti del cilindro, per evitare le annichilazioni, che farebbero sparire tutto. Con la nostra tecnica siamo riusciti a individuare 80 atomi di anti-idrogeno in un punto del cilindro a circa 2,7 metri dalla sorgente.

Una volta che avete gli antiatomi a disposizione per l’osservazione, qual è lo scopo dell’indagine? È di migliorare le conoscenze teoriche sulla natura dell’antimateria o pensate anche di trovare risposte all’enigma della asimmetria primordiale tra materia e antimateria?

Il nostro obiettivo primario è di fare delle misure di precisione sull’anti-idrogeno e confrontarle con quelle dell’idrogeno. Se si trovasse che i valori differiscono, sarebbe un risultato sorprendente che metterebbe in discussione i fondamenti teorici alla base delle descrizioni delle particelle fondamentali. A quel punto bisognerebbe ripensare a tutto l’impianto su cui poggia la nostra conoscenza della materia; si dovrebbero formulare nuove teorie e magari ciò permetterà anche di capire perché nell’universo non si osserva antimateria.

 

Quando si avrà l’esito di questo confronto?

 

Già nell’estate prossima potremo ottimizzare il fascio che siamo riusciti a produrre e nei mesi successivi inizieremo a fare della spettroscopia, cioè delle misure di precisione.

 

Oltre a questi aspetti conoscitivi, si può anche parlare di possibili sviluppi applicativi delle nuove scoperte sull’antimateria?

 

L’antimateria è già utilizzata, nella forma degli antielettroni (positroni) ad esempio nelle analisi mediche con al tecnica PET. Ci sono sperimentazioni per valutare la possibile efficacia dell’impiego di antiprotoni per distruggere delle masse tumorali. Si parla anche di possibili applicazioni che hanno a che fare con la produzione di energia: devo dire però che su questa strada non si intravvedono ancora risultati a breve-medio termine; è una prospettiva a più lungo raggio.  

 

Come si raccordano le vostre ricerche sull’antimateria con le altre, in particolare con quelle delle sonde spaziali? Ad esempio con AMS (Alpha Magnetic Spectrometer), il gigantesco “cacciatore di antimateria” che opera sulla Stazione Spaziale Internazionale dal maggio 2011? 

 

Noi lavoriamo nei laboratori e lì utilizziamo l’antimateria per creare antiatomi. Gli esperimenti che vengono condotti nello spazio invece cercano di vedere se esiste ancora questa antimateria primordiale, che finora non è mai stata osservata nel nostro universo. Si cerca di vedere se tra le particelle che arrivano da tutto il cosmo sui rivelatori posti nello spazio ci sia ad esempio un atomo di anti-elio: sarebbe una scoperta clamorosa, vorrebbe dire da questo anti-atomo da qualche punto è partito e che quindi in qualche angolo dell’universo c’è ancora dell’antimateria originaria. 

(Mario Gargantini)