I ghiacciai alpini sono risorse d’acqua non trascurabili, soprattutto nel periodo estivo quando, con la loro fusione, contribuiscono a mitigare i periodi siccitosi e ricaricare fiumi e torrenti di montagna e di pianura nei momenti di magra.
Recenti ricerche svolte dai glaciologi del Dipartimento di Scienze della Terra “A. Desio” dell’Università degli Studi di Milano hanno permesso di quantificare il rilascio idrico medio estivo dovuto alla sola fusione del ghiaccio glaciale che, per la Regione Lombardia, è pari ogni anno a circa 56 milioni di m3 di acqua. Una ‘goccia’ rispetto alla quantità di pioggia che precipita annualmente sul territorio lombardo; questa ‘goccia’ è però estremamente preziosa, soprattutto per le aree di alta montagna, se consideriamo che si concentra quasi totalmente nei due mesi cruciali per il bilancio idrico: luglio e agosto.
I calcoli che hanno permesso questa stima a scala regionale devono però essere perfezionati, tenendo soprattutto conto delle condizioni superficiali dei nostri ghiacciai, negli ultimi anni sempre meno bianchi a causa della polvere organica (prodotto dagli incendi boschivi e dalla combustione dei motori diesel) e del detrito minerale fine derivante alla disgregazione delle rocce (accentuata negli ultimi anni a seguito della riduzione dei ghiacciai). È il cosiddetto black carbon: in parole povere la medesima polvere o fuliggine che copre i monumenti delle grandi città raggiunge anche le vette alpine, rendendo neve e ghiaccio meno bianchi e riflettevi rispetto ai raggi solari e incrementando l’assorbimento di energia e di conseguenza la fusione.
Fino ad oggi l’attenzione del mondo scientifico si è concentrata sulle nevi delle montagne più elevate o dei Poli, sempre più interessate dalla deposizione di polveri e black carbon (di recente, ad esempio ha fatto scalpore la notizia della neve nera osservata in Artico, in precedenza si era molto parlato di black carbon in Himalaya), mentre pochissimi studi sono stati dedicati al ghiaccio glaciale e alla presenza di polvere minerale, organica e inquinanti sulla superficie di questa preziosa risorsa. “L’annerimento” recente dei nostri ghiacciai ha però destato l’attenzione dei ricercatori su questo fenomeno; infatti, solo studiando con attenzione questa trasformazione e quantificando quanto sono “neri” i ghiacciai sarà possibile valutare il rilascio stagionale di acqua dal “cuore freddo” delle Alpi. La nuova sfida per i glaciologi è quindi descrivere la copertura di polvere e detrito fine sui ghiacciai e da questa desumerne la capacità di riflettere l’energia solare e quindi l’intensità della fusione.
Il gruppo di ricerca dell’Università degli Studi di Milano ha da poco sviluppato un innovativo protocollo di lavoro per quantificare la presenza di polvere e particolato sul ghiaccio glaciale, utilizzando sul campo un radiometro netto e acquisendo fotografie ad alta risoluzione, analizzate con un software di analisi d’immagine. Queste operazioni sono affiancate dal campionamento delle polveri fine per sottoporli ad analisi di laboratorio (chimiche, fisiche e microscopiche), utili a e descriverne la natura e le caratteristiche del materiale campionato.
Il sito scelto per le prime analisi è stato il Ghiacciaio dei Forni (Alta Valtellina, Lombardia) il più grande ghiacciaio vallivo italiano (11,36 km2), che occupa una delle più belle valli del Parco Nazionale dello Stelvio. Per valutare la velocità del processo di deposizione delle polveri, e quindi il tasso di annerimento del ghiacciaio, i ricercatori hanno anche provveduto a ripulire una porzione di ghiacciaio di un 1 m2, rimuovendo i primi centimetri di ghiaccio e delimitando quest’area per poterla nuovamente analizzare il mese successivo. Trascorsi 30 giorni i ricercatori sono tornati sul campo e l’area campione, in precedenza ripulita, appariva nuovamente coperta interamente da polvere nera di varia natura. Questa è stata campionata (asportando nuovamente i primi 2 cm di ghiaccio su tutta l’area di studio) e porta nei laboratori di UniMi dove è stata analizzata. Si è scoperto nell’arco di un solo mese la superficie glaciale è stata annerita da 210 g/m2. Se si estende questo valore per l’intera area di ablazione del Ghiacciaio dei Forni si ottiene un valore, tutt’altro che trascurabile, di 210 tonnellate di polvere al mese! Questo valore, inoltre, permette di comprendere appieno l’impatto del fenomeno black carbon sui nostri ghiacciai.
Questo nuovo metodo, che ha già portato a risultati ottimi, può però essere applicato ad un solo ghiacciaio alla volta, poiché i rilievi sul campo della copertura detritica e della riflettività sono vincolanti e possono estendersi al massimo alla scala di qualche centinaio di metri quadri di ghiaccio. La sfida attuale è quindi quella di effettuare l’analisi delle polveri superficiali nello stesso momento e su un intero gruppo di ghiacciai.
Per rilevare in poco tempo e con grande dettaglio estese aree glaciali ci vengono in aiuto gli strumenti di monitoraggio spaziale, ovvero i satelliti che orbitano intorno al Pianeta e periodicamente acquisiscono immagini ad alta risoluzione, e i droni, piccoli apparecchi controllati da remoto che acquisiscono immagini ad alta risoluzione nelle diverse bande spettrali. Utilizzando questi strumenti in poco tempo si può descrivere la copertura di polvere e detrito fine su un intero ghiacciaio o su un intero gruppo glaciale e da qui ottenerne la capacità di riflettere e assorbire energia e, di conseguenza, prevederne la fusione.
Il protocollo di analisi delle immagini satellitari e di foto acquisite dal drone è stato appena sviluppato dai ricercatori dell’Università degli Studi di Milano e verrà perfezionato e applicato all’intero campione alpino grazie al prezioso sostegno di Levissima, società che ormai da sette anni si prende cura, attraverso sostegni alla ricerca sperimentale ed applicata, del “cuore freddo” delle Alpi.
I primi esperimenti di analisi di dati telerilevati (da drone e da satellite) sono in corso da qualche mese e i primi incoraggianti risultati suggeriscono di proseguire su questa strada. I dati preliminari di questa ricerca è stata recentemente presentata al Forum Alpinum 2014 tenutosi a Darfo Boario Terme, dove è stata premiata con un Poster Award nel settore physical environment, assegnato al giovane dottorando Roberto Sergio Azzoni, che è impegnato per il prossimo biennio su questo progetto di ricerca.
I primi test con drone e immagini da satellite sono stati svolti presso il laboratorio en plein air di UniMi che è costituito dal Ghiacciaio Dosdè Orientale, nel gruppo Piazzi (Alta Valtellina), dove da sette anni sono collocati strumenti utili a misurare le condizioni meteorologiche ed energetiche alla superficie del Ghiacciaio. Questo sito di ricerca, mantenuto anche grazie alla collaborazione con l’Associazione Riconosciuta EvK2CNR, rappresenta il luogo privilegiato per verificare l’applicabilità del nuovo metodo di indagine. Non solo le condizioni meteo ed energetiche del ghiacciaio sono controllate, ma grazie alla strumentazione acquisita nel tempo (con il supporto di EvK2CNR e Levissima) vengono anche misurate con risoluzione oraria le portate del torrente scaricatore glaciale, permettendo così la puntuale verifica della corrispondenza tra la fusione predetta dai modelli elaborati dai ricercatori e l’effettiva quantità di acqua presente nel corso d’acqua.
Su questo ghiacciaio i ricercatori di UniMi, con il supporto dei tecnici di Agricola2000 (società di agronomi che fino ad oggi aveva con successo utilizzato un drone per rilievi vegetazionali e che grazie alla partnership con UniMi ha ora iniziato nuove applicazioni di strumenti e sensori), hanno realizzato rilievi della superficie glaciale che hanno permesso l’acquisizione di ortofotocarte ad altissima definizione, processate per ottenere mappe della distribuzione della copertura di polvere e black carbon e della riflettività superficiale.
Per meglio analizzare le immagini satellitari riprese da un satellite Nasa, e gratuitamente disponibili alla comunità scientifica, i ricercatori di UniMi hanno collocato (e poi rimosso) sui ghiacciai un “bollino blu”, ovvero uno speciale telo in materiale atossico ed altamente riflettente che, steso su una superficie di qualche decina di metri quadri, rende meglio interpretabile l’immagine satellitare e permette la corretta geo-localizzazione degli elementi in essa presenti. Questo accorgimento, messo a punto in collaborazione con la Nasa, facilita le successive fasi del lavoro.
Per questo motivo durante l’estate 2014 i ricercatori di UniMi hanno portato in spalla il prezioso telo ripiegato e l’hanno steso nei giorni di passaggio di satelliti e drone. Un’operazione insolita, che molti turisti ed alpinisti non hanno potuto non notare, ma che sta permettendo di comprendere appieno il ruolo svolto dalle minuscole ma abbondantissime particelle che rivestono i ghiacciai nell’accelerare i già drammatici processi di fusione.
Le asperità superficiali del ghiaccio amplificate dal detrito fine
La stazione meteo sul Ghiacciaio dei Forni
Preparazione del Drone
Uno dei teli posizionati sul ghiacciaio
Passaggio da immagine fotografica a quantificazione detrito