Si è appena concluso a Pyeongchang (Korea) il dodicesimo meeting mondiale (COP 12) sulla biodiversità, con la diffusione di un documento, la Gangwon Declaration, che invita tutti i Paesi ad incentivare il processo indicato nello Strategic Plan for Biodiversity 2011-2020 concordato all’inizio del decennio per la piena attuazione della convenzione sulla Biodiversità. La convenzione sulla Diversità Biologica è stata firmata da un gran numero di  stati a Rio, nel 1992, e ha tre obbiettivi principali: la conservazione della biodiversità, l’utilizzo sostenibile delle sue componenti e l’equa condivisione dei benefici che ne derivano.



La conservazione della biodiversità è una delle sfide più drammatiche della nostra epoca. La nostra specie è totalmente dipendente dagli altri organismi viventi che popolano il pianeta mentre, contemporaneamente, compete con essi per lo spazio e le risorse. La sovrapesca sta rapidamente decimando i predatori apicali delle catene trofiche degli oceani mondiali. Negli anni ’70 il comandante Cousteau scriveva che gli squali non avrebbero mai potuto seguire il declino dei grandi predatori terrestri tanto abbondante era allora il loro numero. Oggi la maggior parte delle specie di questi pesci cartilaginei corre rischi di estinzione e gli ultimi censimenti della popolazione mondiale del grande squalo bianco, il principale predatore degli oceani durante l’ultimo milione di anni, indicano che questa specie non annovera più di qualche migliaio di esemplari. 



I paesi occidentali chiedono insistentemente ai paesi in via di sviluppo di non sfruttare le risorse naturali che essi, in casa propria, hanno già ampiamente distrutto. La ricerca di un equilibrio, spesso estremamente difficile, dovrà comportare soluzioni a livello tecnologico, sociale, politico e gestionale.

Ma, a monte, c’è un problema di natura conoscitiva: dopo due secoli di scienza moderna e di intense esplorazioni del nostro pianeta, abbiamo un idea molto parziale delle reali dimensioni della diversità biologica presente sul nostro pianeta. Anzi a livello della politica globale della scienza bisogna rilevare che, paradossalmente, quanto più si discute di biodiversità e della sua conservazione tanto più i finanziamenti della ricerca si allontanano dal sostenere gli studi sull’elemento chiave della diversità biologica: la specie. 



La ricerca e la descrizione di nuove entità specifiche, in angoli remoti del pianeta o in ambienti remoti vicino a casa nostra, sono costose, faticose e rendono poco o niente dal punto di vista della valutazione della ricerca scientifica. Così sempre meno ricercatori si dedicano a questo campo di studio. 

Esattamente trenta anni fa si è svolto ad Ischia il primo congresso internazionale degli specialisti di Idrozoi, un gruppo di polipi marini relativamente poco conosciuti. Erano presenti una quarantina di ricercatori provenienti da tutto il mondo, dal Canada al Giappone: tra questi cinque persone (me compreso) erano precari mentre la grande maggioranza aveva una posizione stabile presso istituti universitari o musei di storia naturale. Trenta anni dopo, si è tenuto nuovamente questo congresso e il numero di partecipanti è rimasto più o meno lo stesso ma, questa volta, quelli con un posto fisso erano sei (me compreso) mentre la maggior parte era composta da precari o da pensionati. Questo dato fornisce un buon esempio della situazione attuale degli studi della biodiversità al momento del meeting koreano. 

Per evitare il faticoso e ingrato studio morfologico delle nuove specie sono stati inventati i più svariati surrogati:la taxonomic sufficiency, che postula che la biodiversità presente in un ambiente possa essere valutata classificando gli organismi a livelli tassonomici sovraspecifici (molto più semplice e rapido) oppure il bar coding,che attribuisce un codice a barre ad ogni specie determinata in base alla sequenza nucleotidica di un dato gene ottenuto da un estratto di un certo esemplare (lo sa fare rutinariamente un tecnico di laboratorio che, su basi morfologiche, non distingue una sardina da un’acciuga). Tutto questo, ovviamente, ha condotto a risultati interessanti ma non ci aiuta molto quando vogliamo sapere se, nell’ultimo anno, le specie di insetti presenti del giardino di casa sono aumentate o diminuite (pensate a maggior ragione agli insetti della Papuasia o della Patagonia cilena). 

Speriamo che dalle conclusioni del meeting Koreano parta un’inversione di tendenza della ricerca mondiale per evitare che “I futuri storici della scienza debbano descrivere una crisi nella ricerca della fine del ventesimo secolo: l’estinzione dei sistematici, dei naturalisti, dei biogeografi, di coloro che avrebbero potuto raccontare la storia del potenziale decremento della biodiversità”  (, J. T. 1993. Neoextinctions of marine invertebrates. Amer. Zool. 33:499-509).