Nella scorsa settimana sono stato invitato da alcuni colleghi di Ingegneria dell’Università di Padova a partecipare alla Venice Summerschool a Palazzo Cavalli-Franchetti a Venezia. Il tema centrale riguardava la modalità di supporto del mondo scientifico e tecnico alle decisioni politiche, un argomento piuttosto complesso, che mette in luce la difficile e tortuosa via di comunicazione che esiste nella diffusione delle conoscenze scientifiche al grande pubblico.



Ma, l’aspetto che si è ritenuto di dover approfondire in modo particolare ha riguardato soprattutto l’intervento di tipo culturale e tecnico insieme, che i Direttori e Dirigenti generali di Assessorati o di Ministeri svolgono presso il referente politico per sostenere una corretta modalità di monitoraggio e di alterazione del territorio e del paesaggio, sollevando domande importanti anche a proposito del dissesto idrogeologico della nostra penisola, come tragicamente è accaduto recentemente e per l’ennesima volta in Liguria.



Che la struttura geomorfologica del nostro Paese sia estremamente fragile è un dato di fatto, documentato dalla cartografia geologica e dei dissesti franosi. Eppure, nonostante esistano organi ufficiali dello Stato preposti al monitoraggio, si ha l’impressione che di questa fragilità strutturale costituita principalmente dalle frane e dalle alluvioni, seguite da erosioni costiere, subsidenze e valanghe non se ne occupi sostanzialmente nessuno, se non a disastro avvenuto.

Oppure il mondo politico non viene adeguatamente informato dal mondo scientifico e tecnico sulle condizioni di rischio in cui versano i comuni italiani. “In ben 6.633 (su 8092 totali) comuni italiani sono presenti aree a rischio idrogeologico che comportano ogni anno un bilancio economico pesantissimo, intollerabile quando è pagato con la vita” come afferma Legambiente, con oltre sei milioni di persone esposte al pericolo.



La legge di stabilità per il 2014 ha previsto una serie di misure volte a contrastare il dissesto idrogeologico nel territorio nazionale anche attraverso lo stanziamento di risorse finanziarie. Da ultimo, il decreto legge 136 del 2013 ha modificato la disciplina delle gestioni commissariali in materia di difesa del suolo prevedendo, tra l’altro, il trasferimento di tali gestioni ai Presidenti delle Regioni interessate a partire dal 2015.

Il forte processo di inurbamento degli ultimi cinquant’anni ha fatto dimenticare le reali funzioni del suolo, considerandolo uno spazio fisico sul quale ancorare fabbricati civili e infrastrutture industriali. È questo il concetto di “suolo” che è prevalso a partire dalla metà del secolo scorso: uno spazio da occupare in funzione delle più svariate esigenze legate all’affermazione di un modello di sviluppo che non ha tenuto conto dei limiti di disponibilità di alcune risorse naturali. 

In realtà il suolo costituisce un crocevia molto complesso di funzioni fondamentali per la permanenza stessa della vita sulla Terra e, più in generale, per l’equilibrio dei sistemi naturali e paesaggistici.

Anche l’idrologia superficiale è fortemente condizionata dall’efficienza del “sistema suolo”. Il ciclo dell’acqua, anche in occasione di eventi meteorici estremi, presuppone l’infiltrazione di quote rilevanti delle precipitazioni con conseguente rallentamento del deflusso verso valle. L’aumento della velocità del deflusso, che risulta massima in assenza di suolo (suolo impermeabilizzato), è spesso la causa principale delle sempre più frequenti esondazioni dei corsi d’acqua e delle conseguenti inondazioni delle zone di pianura. Un evento meteorico di rilevante entità ma non straordinario, ad esempio di 150 mm, in un bacino imbrifero impermeabilizzato per il 50% della superficie, equivale ad un evento di 300 mm di pioggia con conseguenze, in questo caso, di portata straordinaria. (G. Aramini, 2014)

La strategia tematica per la protezione del suolo, adottata dalla Commissione europea, riconosce l’impermeabilizzazione (soil sealing) come una delle principali cause di perdita di funzionalità del suolo. Inoltre, i numeri relativi alla superficie “consumata” per espansione delle aree urbanizzate o comunque destinate ad infrastrutture, esprimono la drammaticità del fenomeno. A livello europeo, seppur in maniera diversificata nei diversi Paesi, si stima un consumo annuo pari a circa 100.000 ettari di suoli prevalentemente agricoli. Secondo i dati elaborati a partire dalle cartografie Corine Land Cover (CLC) l’84% delle aree urbanizzate (1.600.000) nel periodo 1990 – 2006 sono state sottratte all’agricoltura.

In Italia dal 1950 ad oggi, a fronte di una popolazione cresciuta del 28%, la cementificazione è cresciuta del 166%. I dati Istat indicano un consumo di suolo al 2008 pari a 2.100.000 ettari corrispondenti al 7 % della superficie nazionale, in altri termini, l’equivalente della Calabria e della Basilicata messe insieme. Tenendo conto che i dati Istat sottostimano il fenomeno rilevando esclusivamente le aree “edificate” con nuclei di almeno 15 edifici, i dati reali risultano significativamente superiori.

Dati tendenzialmente più bassi (1.500.000) sul consumo di suolo in Italia derivano dai data-base del Corine Land Cover. Anche in questo caso, tuttavia, va evidenziata una sostanziale sottostima del fenomeno. Infatti, l’unità minima rappresentata nella cartografia prodotta risulta pari a 25 ettari e non comprende in alcun modo il fenomeno sempre più esteso delle “case sparse” e delle infrastrutture di tipo lineare (strade, autostrade, ferrovie). Studi di maggior dettaglio realizzati in alcune Regioni italiane (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna) confermano che il dato Corine Land Cover indichi solo il 30% delle aree realmente trasformate con perdita definitiva di suolo. (G. Aramini, 2014).

Secondo il rapporto “Ambiente Italia 2001” il dato più probabile di consumo di suolo nel nostro Paese è compreso fra 37.000 e 50.000 ettari anno, che si aggiungono ai 2,8 milioni di superficie attualmente cementificata pari a circa il 10% della superficie nazionale. Ciò accade mentre l’Italia risulta essere il terzo Paese europeo per “deficit di suolo agricolo” cioè consuma molto di più di quanto il proprio suolo è in grado di produrre.

Nell’era delle “nuove scarsità” in cui la corsa all’accaparramento della terra (land grabbing) diventa un fenomeno strategico per i Paesi più popolosi del Pianeta e in cui la sicurezza alimentare torna ad essere un tema ricorrente negli indirizzi di Politica agricola, la valorizzazione del suolo dal punto di vista agricolo e forestale assume valenza fondamentale nella pianificazione delle scelte legate allo sviluppo rurale.

Quando accadono dei dissesti di carattere idrogeologico, si pone sempre la questione della mancanza di risorse finanziarie, che, in questo periodo della storia economica del nostro Paese, costituiscono l’impedimento oggettivo per realizzare qualunque opera di consolidamento e di messa in sicurezza delle aree più a rischio. Quando, invece, i soldi sono disponibili, interviene la burocrazia o la magistratura (spesso giustamente) a bloccare gli appalti.

Proviamo ad uscire dal “lamentatoio finanziario” e lanciamo delle proposte politicamente intelligenti e tecnicamente soddisfacenti. Con la pesante disoccupazione presente in Italia, con la notevole forza di immigrazione extracomunitaria, che viene abbandonata senza nessuna direttiva in alberghi con vitto e alloggio, con l’esercito e persino con alcune tipologie di carcerati, il mondo politico potrebbe assumersi la responsabilità di sviluppare forme di collaborazione sotto la direzione degli organi ufficiali dello Stato per intervenire laddove i rischi ambientali sono segnalati da tempo e sono più necessari.

Poiché le risorse finanziarie emergono comunque a danni avvenuti, potrebbero invece essere anticipate per prevenire i disastri con un risparmio complessivo di notevole peso. Ci vuole coraggio, organizzazione e una coralità di intenti; elementi che in questo periodo sembrano essere quasi scomparsi dalla maggioranza del mondo politico, abituato alle comode poltrone della Camera e del Senato, dove dei dissesti arrivano solo i disastri accaduti.