L’esempio da offrire al grande pubblico questa volta era fin troppo facile: per illustrare la scoperta che ha meritato il premio Nobel per la Fisiologia o Medicina assegnato ieri a tutti è venuto spontaneo riferirsi al GPS, cioè al sistema di localizzazione che collega i navigatori satellitare ai quali ormai siamo abituati. Il premio, che verrà ritirato per una metà dall’americano di origini irlandesi John O’Keefe e per l’altra da Mary-Britt e Edvard Moser, ha come motivazione ufficiale: “la scoperta delle cellule che costituiscono un sistema di posizionamento nel cervello”.



O’Keefe ha dovuto attendere oltre 40 anni per veder premiata l’importanza della sua scoperta; ciò tra l’altro corrisponde a una tendenza in atto negli ultimi tempi, che vede allungarsi il periodo che intercorre dal risultato scientifico al suo riconoscimento col Nobel. La scoperta infatti è avvenuta agli inizi degli anni settanta, dopo che O’Keefe si era trasferito all’University College di Londra, dove tuttora dirige un centro di ricerche neurologiche.



Che cosa ha scoperto O’Keefe? «Ha scoperto – spiega a ilsussidiario.net Mauro Ceroni, professore di Neurologia all’Università di Pavia– che in topi che si muovevano liberamente in una gabbia, si accendeva l’attività di cellule dell’ippocampo in punti diversi a seconda della posizione in cui si spostavano. Aveva quindi scoperto quelle che lui chiamava cellule di posizione. È come se nell’ippocampo ci fosse una mappa con delle cellule che si accendono quando il topo è in una certa posizione».

Dopo quel primo risultato, non ci sono stati grandi passi avanti fino agli anni 2000 quando sono entrati in scena gli altri due neuro scienziati, due coniugi norvegesi – che naturalmente fanno subito venire alla mente l’altra celebre coppia da Nobel, Maria e Pierre Curie – che hanno studiato in particolare la corteccia entorinale, che è una parte dell’ippocampo, scoprendo nel 2005 che nell’ippocampo c’è una sorta di griglia, come se il topo avesse in testa una mappa con un reticolo come quelli che ricoprono le carte geografiche. «Percorrendo questo reticolo, il topo è in grado di muoversi nello spazio con la consapevolezza di dove sta andando; un po’ come le nostre cartine che ci aiutano ad orientarci mentre ci muoviamo in un territorio. D’altra parte non può che essere così: per muoverci, noi abbiamo bisogno di avere in testa una rappresentazione dello spazio».



Ceroni ci fa notare un aspetto più generale di questi studi: «Quello che si rileva per la localizzazione è tipico della coscienza e vale anche per altri aspetti: in ogni situazione, il soggetto deve farsi una rappresentazione della realtà per poterla affrontare. Inoltre questo permette di pensare a un meccanismo di memorizzazione: avendo a disposizione un insieme di cellule che sono connesse tra loro, possiamo mantenerne la memoria. È una rappresentazione che peraltro, nell’interazione con la realtà, viene continuamente modificata, riformulata; non è fissata una volta per tutte. è tipico del cervello il fatto di tener conto continuamente di nuovi input e di modificarsi per permetterci un rapporto sempre migliore con la realtà».

In entrambi i casi le ricerche sono state condotte senza utilizzare gli straordinari strumenti che oggi i neurofisiologi hanno a disposizione per esplorare l’attività cerebrale: i loro primi esperimenti sono stati eseguiti applicando degli elettrodi e inserendo dei sensori in profondità in grado di rilevare l’attività neuronale. Oggi c’è la possibilità di impiegare sensori miniaturizzati che permettono di indagare più in dettaglio la complessità di questi circuiti.

Gli stessi tipi di studi sono stati condotti su molti altri animali e qualche esperimento è stato fatto anche sull’uomo, durante qualche intervento chirurgico: tutti hanno confermato che questo sistema di mappatura della realtà spaziale è comune a tutta la vita animale. «Ciò non sorprende più di tanto: la vita animale ha tra le sue caratteristiche tipiche quella di potersi muovere; quindi è naturale che abbia un sistema interno che garantisca la consapevolezza di dove sta andando quando si sposta». 

È evidente che gli animali sanno muoversi nello spazio, sanno riconoscere vari elementi dello spazio: basti pensare ai casi di animali che sanno ritornare a casa anche se vengono trasportati a molti chilometri di distanza; oppure si pensi alla straordinaria capacità dell’uomo di orientarsi, in tante situazioni diverse. Anche il fatto che questo abbia dei corrispondenti meccanismi a livello neurologico non deve sorprendere; anzi, deve per forza essere così: non esiste infatti nessuna facoltà umana che non abbia un corrispettivo a livello cerebrale, perché l’uomo non è separabile dal suo corpo e dal suo cervello. L’importanza della scoperta di O’Keefe e dei Moser è di aver capito dove e come si attiva il nostro cervello per permetterci tali facoltà; nel caso specifico, per consentirci la localizzazione.

Sarebbe però indebito andare oltre. Ceroni ci fa notare una certa forzatura nei primi commenti all’annuncio del premio e nel modo con quale molti media l’hanno diffuso. «Si suggerisce, più o meno esplicitamente, che queste scoperte ci permettono per la prima volta di conoscere la causa che produce le funzioni che ora sappiamo così bene visualizzare. È un’ulteriore manifestazione di una tendenza molto diffusa quando si parla di neuroscienze: come se il cervello fosse la causa di tutto, così che, conosciuto il cervello noi possiamo automaticamente conoscere i comportamenti umani. Aver visto nel cervello la localizzazione di certe funzioni non significa aver trovato la causa di tali funzioni. Stiamo solo iniziando a capire la modalità con cui il cervello permette che queste espressioni abbiamo luogo, ma non la causa che le genera».

Ciò ha anche un risvolto importante quando si passa a trattare il tema delle conseguenze applicative di una scoperta del genere. «Ho notato una certa insistenza, anche nelle presentazioni e nei commenti dell’Accademia svedese, sulle possibilità terapeutiche che si aprirebbero con queste conoscenze; ma ciò non è per nulla evidente. Si dice ad esempio che l’ippocampo è una delle regioni più precocemente e più ampiamente interessata dalla malattia di Alzheimer; in effetti chi è colpito da tale malattia facilmente incorre nella perdita della capacità di orientamento nello spazio, cosicché entra in una stanza pensando di andare nell’altra o una volta uscito di casa non riesce a tornarvi. Però il fatto che oggi conosciamo più precisamente il ruolo giocato nell’orientamento spaziale da queste strutture, di per sé non significa che abbiamo una possibilità immediata di trovare delle cure; anche perché queste conoscenze non riguardano il problema della neuro degenerazione e del processo patologico che crea quei disturbi».

In effetti, dopo la scoperta dei coniugi Moser non si può dire che si siano ottenuti grandi risultati in campo terapeutico. Il che nulla toglie all’importanza dei risultati ottenuti da loro e prima da O’Keefe.