Neuromania, neurofobia: sono due posizioni estreme di un dibattito che si è infiammato negli ultimi tempi ma che, se condotto appunto nelle sue versioni assolutizzate non rende giustizia né agli importanti risultati conoscitivi conquistati dalle neuroscienze né al ruolo che, nell’indagine sull’uomo hanno tutte le discipline che non hanno il prefisso “neuro”. Ciò vale a maggior ragione se l’oggetto dello studio è la coscienza, “il mistero più grande dell’universo”, come recita il titolo dell’incontro che si svolgerà domani, martedì 11 novembre, alle 21.00 nella Sala Verri in via Zebedia 2 organizzato dal Centro Culturale di Milano in collaborazione con l’Associazione Euresis. L’incontro sarà occasione per un dialogo tra neuroscienze, medicina e filosofia introno al libro “La Coscienza. Contributi per specialisti e non specialisti” (Aras Edizioni), dove con Mauro Ceroni, neurologo, e Luca Vanzago, filosofo – autori insieme a Faustino Savoldi del libro in oggetto – dialogheranno il filosofo Michele Di Francesco e il neuroscienziato Stefano Cappa. È possibile oggi tracciare i lineamenti fondamentali di un fenomeno così grande e proprio dell’umano che è la coscienza? E come farlo in un clima culturale che rende sempre più incerto il volto dell’uomo? Più aumentano i dati affascinanti delle neuroscienze e le osservazioni sperimentali, più emerge il carattere misterioso dell’attuarsi della coscienza, un campo sterminato che ci permette di confermare antiche certezze filosofiche accanto all’affermazione di nuove consapevolezze moderne. Con Stefano Cappa ilsussidiario.net ha anticipato alcuni temi del dialogo.



Partiamo dalla precisazione dei termini: che cosa vuol dire essere coscienti?

Il termine coscienza copre un’area vastissima di significati, anche molto eterogenei tra loro; si va dall’aspetto della vigilanza, della reattività all’ambiente, al richiamo alla coscienza morale, fino al punto, ben più impegnativo, dell’autocoscienza.



Cosa ha da dire la neurobiologia su questi? È possibile un’indagine di tipo empirico?

Su alcuni aspetti, forse da quelli più interessanti, come l’autocoscienza, dal punto di vista della neurobiologia non c’è moltissimo da dire. La neurobiologia invece ha molto da dire sugli elementi più di base: come appunto la vigilanza, o la capacità di avere accesso ai contenuti della propria mente. Su questi aspetti possiamo trarre molte informazioni dallo studio di pazienti con lesioni cerebrali e dalle analisi con i nuovi metodi che ricorrono alle neuroimmagini.

Quello dell’autocoscienza sembra essere il nocciolo duro della questione della coscienza…



Sì. Sull’autoconsapevolezza – di cui si parla molto nel libro “La coscienza” di cui si discuterà domani sera al Centro Culturale di Milano – è molto più difficile indagare scientificamente perché riguarda fondamentalmente l’esperienza soggettiva. Qui i metodi citati prima iniziano a dirci qualcosa ma il problema è molto più vasto di quello che può essere affrontato con i metodi sperimentali.

Le tecniche di indagine basate sulle immagini cerebrali hanno fatto enormi passi avanti negli anni recenti, tanto che qualcuno parla di lettura del cervello invece che di lettura della mente. Si può misurare il livello di coscienza di una persona? Capire di che cosa è consapevole? Come facciamo a dire che una persona è cosciente?

Tipicamente esaminando il suo comportamento oppure parlando con lei; il linguaggio è evidentemente lo strumento privilegiato. Questo però crea problemi nei casi in cui il tramite del linguaggio è inaccessibile: come nel caso dei bambini molto piccoli o di pazienti che non possono parlare o degli animali. In questi casi gli sviluppi più interessanti sono dati dalla possibilità di correlare consapevolezza ad attività cerebrale, cioè di dedurre il suo stato di consapevolezza dall’analisi della sua attività cerebrali tramite le neuroimmagini. Qui ci sono sviluppi molto interessanti che riguardano il versante sperimentale: oggi possiamo con notevole precisione individuare quello che un soggetto sta vedendo in base all’attivazione cerebrale attraverso la Risonanza Magnetica Funzionale. Non è che vediamo le immagini che lui vede ma, attraverso processi statistici abbastanza complessi, possiamo fare delle scommesse su ciò che sta vedendo. o addirittura, secondo studi recenti, possiamo fare delle inferenze sulle parole alle quali il soggetto sta pensando.

Vuol dire che possiamo leggere nella mente degli altri?

Beh, questo è il modo in cui in genere vengono “venduti” questi risultati. In effetti su questo piano bisogna dire che siamo a dei livelli molto primitivi; molti di studi, ad esempio, riguardano gruppi di soggetti e non rivelano perciò la mente del singolo. Ci sono esperimenti molto interessanti su pazienti con lesioni a una parte del cervello, dove i soggetti se vedono uno stimolo a sinistra o a destra sono in grado di riconoscerlo ma se ne vedono due contemporaneamente da ambo le parti riconoscono solo quello relativo alla parte non lesa. Se però si esamina la corteccia visiva, cioè quella che riceve le informazioni, si vede che lo stimolo è arrivato anche nella parte di cui il paziente non è consapevole; il fatto è che il quel punto il segnale resta come confinato mentre dalla parte che viene riconosciuta si diffonde e innesca una cascata di attività neuronali. Tutto ciò solleva poi tutta una serie di importanti problemi interpretativi.

Ci sono quindi notevoli limiti anche nell’utilizzo di queste avanzate tecniche di indagine?

Certamente, i limiti sono evidenti; perché il grosso rischio di cui bisogna essere pienamente consapevoli è che si sta facendo una specie di inferenza inversa: vale a dire, vedendo un certo tipo di attività cerebrale noi deduciamo che probabilmente il soggetto sta pensando a un certa cosa, oppure, vedendo l’attivazione dell’amigdala, che è una struttura dell’emozione, deduciamo che il soggetto sta vivendo delle emozioni. Il problema è che dovremmo essere sicuri che all’attivazione di questa parte corrisponde sempre e solo, univocamente, un tipo di esperienza; ciò non è per nulla scontato: ad esempio l’amigdala si attiva anche per altri meccanismi.

Oggi però, soprattutto nei media, c’è un’esasperazione e un’esaltazione delle potenzialità di questi metodi: sembra che ormai la mente umana sia prossima a non avere più segreti…

In effetti, da un lato c’è un entusiasmo immotivato, spesso basato su cattiva informazione; dall’altro però ci sono reazioni ideologiche e pregiudiziali. Personalmente ritengo che sia importante divulgare correttamente tutte le nuove possibilità che si stanno aprendo, senza timori o preconcetti negativi verso queste metodologie. Stiamo affrontando problemi che sono estremamente delicati e complessi ma è giusto, a mio avviso, che proviamo ad affrontarli. Il punto è che poi questi tentativi vengano raccontati con precisione, rendendo palesi i limiti e le difficoltà di interpretazione di molti risultati sperimentali. Il problema del rapporto tra il cervello e l’attività mentale è uno dei più interessanti da approfondire ed è quello dove ci sono stati gli avanzamenti più rilevanti negli ultimi decenni. Sono convinto che sia molto importante studiare tutti questi fenomeni, senza preclusioni o riserve. Certo ci vuole una comunicazione corretta, evitando che circolino notizie del tipo: la risonanza può diventare una “macchina della verità”; sono affermazione che contengono solo una minima parte … di verità.

Non ritiene che anche da parte dei ricercatori ci sia spesso un approccio riduzionistico a questi temi, che accentua o assolutizza gli aspetti cerebrali e neurobiologici?

Secondo me cercare di capire come il cervello rende possibile l’attività mentale non è riduzionismo. Il riduzionismo è sostenere che questo è l’unico processo valido, che è l’unico modo di studiare la mente. Se io arrivassi a conoscere anche tutto sulla relazione tra l’amigdala e le emozioni, non per questo sarebbe meno interessante e utile studiare il contributo della letteratura o della filosofia. Si tratta di approcci differenti, che ci danno tante informazioni e portano una ricchezza sul piano conoscitivo. Tutti gli aspetti dell’espressività umana contribuiscono formarci un quadro di quella che è la coscienza. L’aspetto negativo non è il cercare di capire quali sono i correlati neurologici anche di espressioni e attività umane più complesse. Negativo è quando si riduce tutto a quel solo aspetto e lo si considera come unico valido.

Ad esempio?

Le faccio un esempio concreto: se mi occupo di neuroeconomia, come mi è capitato di fare, e penso di poterlo fare solo dal punto di vista cerebrale, senza collaborare con degli economisti faccio un’operazione sbagliata perché inevitabilmente porrò ai miei metodi e alle mie tecnologie delle domande inadeguate che quindi vanificheranno il responso sperimentale. L’esempio si può applicare a tutti i campi; forse anche alla filosofia. In ogni caso, ripeto, non è che quando avremo capito le basi cerebrali delle decisioni in materia economica allora avremo risolto ogni problema. L’importante è avere ben chiare le distinzioni tra gli approcci e non confondere i livelli dell’indagine.

(Mario Gargantini)