La citazione era quasi obbligata e si è incaricato di rilanciarla in diretta streaming il presidente dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana) Roberto Battiston: “è un piccolo balzo per un robot, un grande passo per l’umanità”. Il robot è la sonda spaziale Philae, che ieri alle 16.35 (ora italiana) ha toccato la superficie della cometa 67/P Churyumov-Gerasimenko. Dopo 28 minuti – il tempo perché il segnale dalla “sonda madre” Rosetta arrivasse a Terra –i media di tutto il mondo hanno rilanciato la notizia: “ce l’ha fatta!”. Il balzo della sonda spaziale Philae è durato sette ore e ha tenuto col fiato sospeso quanti in tutto il mondo ne hanno seguito le fasi collegandosi con i diversi siti e social network a loro volta collegati con il centro di controllo dell’ESA a Darmstadt.
Le fasi salienti si sono susseguite così: alle 8.30 del mattino, nonostante qualche titubanza nella notte precedente, si è deciso di dare il via libera alla separazione del lander Philae dalla sonda Rosetta e la manovra è avvenuta, come previsto, alle 9.35 italiane. Verso le 16 a bordo della sonda spaziale Philae è iniziata la sequenza automatica delle operazione di pre-atterraggio. Alle 16.22 si è aperta la finestra di touch down, una finestra di circa 40 min; qui è iniziata la breve ma interminabile attesa della conferma del touch down, che è giunta puntualmente alle 17.03 accompagnata dall’esultanza corale di tutto lo staff dell’ESA, non senza qualche lacrima.
Esultanza che si è replicata in alcune sedi anche italiane da dove l’evento è stato seguito comunitariamente; come all’università di Padova, dove opera uno dei gruppi italiani più coinvolti nella missione. Qui abbiamo raggiunto il professor Piero Benvenuti, astrofisico con lunga esperienza nelle istituzioni spaziali europee e internazionali, che ha commentato le prime notizie giunte dalla 67/P Churyumov-Gerasimenko, considerando anche i possibili rischi cui andava incontro una missine del genere.
«La missione era preparata perfettamente dal punto di vista della navigazione spaziale; è incredibile la capacità di controllo che hanno acquisito e la capacità di manovrare una navicella come Rosetta e di inserirla nell’orbita giusta. Da questo punto di vista si può parlare di un sistema di eccellenza. L’incertezza c’era però sulla consistenza del suolo nel punto di atterraggio e sull’entità degli ostacoli che si sarebbero potuti trovare. La zona scelta era sulla cosiddetta testa della cometa, anche per motivi di controllo della rotazione: consideriamo che la sonda spaziale Philae stava per atterrare su un corpo che ruotava sotto di lei e bisognava minimizzare il pericolo costituito da questo bersaglio mobile. Peraltro, il sito prescelto era stato esaminato attentamente e mostrava delle ampie aree pianeggianti prive di ostacoli ma anche delle zone accidentate e con superfici inclinate sulle quali, se la sonda spaziale Philae fosse atterrata lì, era elevato il rischio di un rovesciamento. L’altro problema era la bassissima gravità presente sulla cometa, per cui il rischio era che nell’impatto la sonda rimbalzasse e si perdesse nello spazio».
Ora, da quanto si è capito nelle comunicazioni del tardo pomeriggio, sembra che la sonda spaziale Philae sia atterrata facendo un piccolo rimbalzo per poi sistemarsi in un punto più stabile. «Il fatto che riesca a trasmettere bene significa che è ben posizionata, con l’antenna puntata nella direzione corretta. Ci sono però dei problemi di ancoraggio: sembra che gli arpioni non abbiano funzionato come dovevano, probabilmente a causa delle condizioni di inconsistenza del terreno e attualmente (a otto ora dall’atterraggio, ndr) i responsabili della missione stanno considerando l’idea di rilanciarli, cosa che è tecnicamente possibile. La stabilità è necessaria soprattutto per le operazioni che poi si dovranno svolgere: prima fra tutte l’azione di perforazione affidata al sistema SD2, l’ormai celebre “trapano” progettato al Politecnico di Milano.
Da quanto si può dire finora, sembra proprio giustificata la grande soddisfazione manifestata dai responsabili dell’ESA. «Sì. Sia al centro ESA sia nella varie sedi dove operano i gruppi coinvolti nella missione, come qui a Padova, si respira un clima di grande entusiasmo. Anche perché prima dell’arrivo dei segnali positivi si percepiva un certo scetticismo o comunque la preoccupazione che la sonda scendesse in un punto dove il terreno era troppo accidentato».
Il plauso è stato unanime ed è significativa la reazione di uno dei responsabili della Nasa presente a Darmstadt che ha elogiato il successo della missione Rosetta considerandola un’impresa condivisa. Un successo dell’Europa, dell’ESA, dell’industria e della ricerca europea. E all’interno di questo un successo dell’Italia, «che è in prima linea sia con la camera WAC di Osiris realizzata qui a Padova, sia col sistema Giada, dell’Università Parthenope di Napoli, certamente all’avanguardia nell’analisi delle polveri, e poi con lo spettrometro VIRTIS dell’IAPS-INAF di Roma e col già citato SD2».
Benvenuti si riferisce anche al lavoro dei tanti ricercatori, impegnati negli aspetti più scientifici della missione e sottolinea l’importanza del coinvolgimento dei geologi, data la loro esperienza nell’analizzare la conformazione dei terreni e nel capire l’evoluzione storica che ha portato a certe configurazioni e strutture; una serie di conoscenze normalmente non presenti negli astronomi che si occupano di comete e che le osservano da lontano con i telescopi. «Adesso che siamo lì sulla cometa e possiamo vederla da vicino, le competenze geologiche diventano particolarmente preziose».
Ci si può chiedere se dal punto di vista di un astrofisico la scelta della Churyumov-Gerasimenko sia stata quella più valida. «Mi sembra che la scelta abbia rappresentato un buon compromesso tra diverse esigenze. È chiaro che l’ideale per un astrofisico sarebbe stata una cometa di quelle che per la prima volta si avvicina al Sole e che vengono scoperte, in un numero non piccolo, ogni anno. Queste, essendo nuove, contengono del materiale originario, che non è stato mai “cucinato” dalla vicinanza del Sole e dai suoi effetti. Incontrarle però è estremamente difficile: sia perché non se ne conosce bene l’orbita finché non sono già vicino a noi, e quindi irraggiungibili; sia perché le comete nuove sono molto attive, espellono una gran quantità di gas e polveri e hanno una notevole chioma e quindi non possono essere troppo avvicinate, pena la distruzione delle apparecchiature. Nel caso della missione Rosetta, la cometa ha già una iniziale attività ma non tale da incidere, almeno per ora, sugli strumenti di misura».
Ammettendo e sperando che l’insediamento di Philae sulla 67P si completi positivamente e che la missione possa proseguire, quali sono le aspettative principali della comunità scientifica? «I principali risultati attesi riguardano l’analisi, che verranno eseguite in loco, dei materiali gassosi emessi sia della polvere; soprattutto dei materiali che verranno estratti dal sottosuolo mediante il trapano. È ben chiaro ormai – e lo si è visto molto bene dalle immagini raccolte in questi giorni di avvicinamento della sonda alla cometa – che la superficie cometaria è nera, come se fosse coperta di fuliggine; e che il materiale che la costituisce è molto poroso e quindi può aver protetto al suo interno il materiale originario. Il che ci permetterebbe di analizzare il materiale cometario primigenio che è poi lo stesso dal quale si è formate il Sistema Solare. Poiché sulla Terra abbiamo molte delle molecole organiche che possiamo trovare sulla cometa, sarà interessante capire se i meccanismi di formazione di queste catene di molecole organiche sono favoriti in zone remote, là dove nascono le comete, oppure se si possono formare anche sulla Terra. Un’idea, già da tempo avanzata dagli astrobiologi e che queste molecole organiche complesse siano state trasportate sul nostro Pianeta dalle comete che, nelle fasi iniziali del Sistema Solare erano numerosissime. Si aprirebbe quindi un campo di indagine molto interessante circa l’origine del Sistema Solare e della stessa vita».
Pur condividendo l’entusiasmo che circonda questa primo traguardo raggiunto, non possiamo trattenerci dal chiedere a Benvenuti una sua valutazione sul senso e sul valore di missioni come questa. «C’è una motivazione di interesse generale ed è la possibilità di maggior conoscenza del nostro cosmo; soprattutto della parte che riguarda la formazione dei sistemi planetari ed eventualmente, da qualche parte, sicuramente sulla Terra, di sistemi viventi. Ormai è ben chiaro che la caratteristica fondamentale dell’universo è la sua evoluzione, cioè il fatto di svilupparsi come storia: conoscere questa storia significa conoscere la nostra storia . Quindi anche se queste problematiche sembrano molto lontane dai nostri comuni interessi quotidiani, bisogna riconoscere che fanno parte della nostra storia e questo ci lega sempre più strettamente al cosmo. Cosicché più impariamo, più conosciamo la sua evoluzione, più possiamo agire coerentemente con essa, sentendoci parte integrante dell’universo, anzi accorgendoci di essere la coscienza dell’universo. Possiamo perciò essere più responsabili nel custodire questo dono che ci è stato fatto, costruito in miliardi di anni con grande pazienza e ragionevolezza».
(Michele Orioli)