Chi pensava che la celebre Lupa Capitolina, opera in bronzo simbolo della città di Roma, fosse una scultura etrusca si è dovuto ricredere e accettare una datazione che la colloca parecchi secoli dopo, come manifattura medievale, probabilmente su ispirazione di un originale etrusco andato perduto. Il verdetto però non è venuto solo dalle ricerche archeologiche ma è soprattutto frutto delle indagini sperimentali degli scienziati dei materiali.



Quello dei beni archeologici e culturali è uno dei settori applicativi più interessanti, e in un certo senso inaspettati, di quella Scienza dei Materiali, una delle ultime nate tra le discipline scientifiche, che continua a sfornare novità teoriche e applicative; premi Nobel compresi, come quello per la Fisica che verrà consegnato il prossimo 10 dicembre a Stoccolma.



Uno dei primi esperimenti italiani di costruzione di un percorso interdisciplinare capace di coniugare una rigorosa formazione scientifica con lo sviluppo di competenze professionali spendibili sul mercato del lavoro è stato l’avviamento del corso di laurea in Scienza dei Materiali all’università di Milano-Bicocca. La nascita risale a vent’anni fa e nei giorni scorsi la celebrazione dell’anniversario è stata occasione per gettare uno sguardo ai progressi di queste due decadi che non solo hanno profondamente modificato la nostra visione della fisica e della chimica della materia ma hanno anche inciso profondamente sulla nostra vita quotidiana, generando tecnologie e prodotti neppure immaginabili negli anni Novanta.



Ne abbiamo parlato con Marco Martini, Direttore del Dipartimento di Scienza dei Materiali dell’università di Milano-Bicocca e che si dedica particolarmente alle applicazioni nell’ambito dei beni culturali.

Nella scienza dei materiali si uniscono ricerca di base e applicazioni, tanto che spesso è difficile vedere il confine tra i due ambiti: sta forse emergendo un nuovo paradigma nel rapporto tra scienza e tecnologia?

Non è semplicissimo rispondere. Le darò qualche elemento di riflessione. L’università ha sempre avuto la tendenza a parlare di scienza come se fosse abbastanza lontana dalle applicazioni; questo con la sola eccezione dei Politecnici. Noi delle discipline scientifiche “classiche”, fisica, chimica, biologia, geologia, abbiamo in prevalenza privilegiato l’indagine scientifica per poi eventualmente promuovere l’applicazione ma come se questa fosse qualcosa di estraneo all’università. Invece quello che sta emergendo con la Scienza dei Materiali è una prospettiva diversa. Intanto c’è una forte spinta a lavorare insieme tra scienziati di discipline diverse: qui noi veniamo o da fisica o da chimica e l’attività comune serve da un lato per mettere a frutto le competenze di aree contigue ma diverse e dall’altro per creare una nuova figura che abbia le conoscenze sia di chimica che di fisica applicate ai materiali. Ne è venuto fuori, sia per chi aveva una formazione un po’ più specialistica sia per i giovani che sono più interdisciplinari già come formazione, un’area di ricerca che è molto orientata all’applicazione; il che significa essere molto disponibili ad attività congiunte tra accademia e impresa.

Quindi è la prospettiva applicativa a orientare la ricerca?

La novità è che due scienze “sorelle”, fisica e chimica, che prima si guardavano con una certa distanza di rispetto, qui hanno annullato le distanze; e sebbene anche prima ci fossero già delle zone di sovrapposizione, ora quelle attività sono congiunte, i laboratori sono contemporaneamente di sintesi dei materiali, di caratterizzazione, di studio di possibili applicazioni: tutte operazioni che non hanno l’etichetta di chimica o fisica ma solo Scienza dei Materiali. C’è ancora la ricerca teorica, di base; ma spesso i materiali si costruiscono a partire dall’ipotesi della possibile applicazione.

 

Scienza dei materiali oggi vuol dire tante cose: nel vostro Dipartimento, che recentemente ha celebrato i 20 anni di attività, ci sono dei filoni prevalenti o comunque più promettenti come risultati applicativi?

Potrei farle un lungo elenco. Abbiamo delle aree per così dire storiche: la microelettronica e la optoelettronica, cioè, semplificando, i componenti elettronici e le fibre ottiche. Poi abbiamo la parte dei dispositivi più in generale, dove possiamo parlare dei LED: qui ci sono alcuni miei colleghi che hanno lavorato sui LED blu in Giappone con i vincitori del premio Nobel di quest’anno. Una strada più innovativa e non ancora di largo successo è quella dei LED organici, gli OLED: per intenderci, possiamo considerarli delle plastiche, che presentano alcuni grandi vantaggi di flessibilità e di costi.

Un ambito dove si vede molto il vantaggio della collaborazione tra fisici e chimici è quello dei materiali misti, inorganici – organici, con applicazioni particolari nell’energia: nuovi concentratori solari, o nuovi vetri che applicati alle finestre le trasformano in pannelli solari. O ancora quei materiali cromogenici, cioè che sottoposti a piccoli campi elettrici o alla luce o a sbalzi termici cambiano colore e trasparenza; con utilizzi per il risparmio energetico.

C’è da aggiungere che nella maggior parte dei casi noi realizziamo il dispositivo prototipale che poi deve essere ingegnerizzato per diventare un vero prodotto.

 

E poi c’è il settore dei beni culturali, nel quale lei è più direttamente coinvolto: cosa si intende più precisamente?

In generale da poco più di 20 anni esiste un’area ancor più interdisciplinare che è la archeometria, comprendente tutte quelle applicazioni delle scienze sperimentali che possono rispondere alle esigenze del patrimonio culturale: la conoscenza, poi la conservazione, la valorizzazione e infine il restauro. Anzitutto lo devo conoscere: non avrebbe senso iniziare un lavoro di restauro su un oggetto antico che poi risultasse un falso di fine ottocento. Poi lo devo mettere in condizioni tali da poterlo conservare senza rischi di degrado. E naturalmente devo assicurare delle adeguate possibilità di fruizione. Tutti questi sono aspetti della più vasta area archeometrica.

Quali prospettive può offrire la scienza dei materiali per ambiti come quelli appena indicati?

Con le nostre tecnologie possiamo ad esempio conoscere i pigmenti che ricoprivano un tempio greco; o rintracciare l’origine dei marmi di una costruzione antica; oppure datare un edificio o un’opera d’arte. O ancora: su un dipinto si possono fare radiografie, tomografie, rifletto grafie per esaminare cosa c’è sotto la superficie e analizzare bene la pennellata, lo spessore del pigmento, la tecnica pittorica per poi confermare o meno le attribuzioni ai vari autori.

Nel nostro istituto abbiamo sviluppato delle tecniche di datazione; abbiamo un Centro interdipartimentale per le datazioni, con un laboratorio per gli esami al radiocarbonio e altra strumentazione. Possiamo datare materiali di origine organica: legno, tessuti, papiri; e materiali inorganici, come terracotte e ceramiche che hanno accompagnato le civiltà fin dal V millennio a. C.

 

Quali metodologie applicate?

Un metodo che si è rivelato molto efficace è quello della termoluminescenza. Possiamo dire di essere stati i pionieri in Italia nell’impiego di questa tecnica che ormai abbiamo applicato in decine di migliaia di interventi: soprattutto sugli scavi archeologici, dove contribuiamo alla determinazione della stratigrafia; oppure sulle costruzioni, delle quali possiamo ricostruire le varie fasi facendo quella che ora si chiama stratigrafia del costruito.

 

Qualche esempio?

Abbiamo esaminato la basilica di San Lorenzo Maggiore in Milano, dove con la termoluminescenza e con la optoluminescenza abbiamo determinato l’età dei mattoni – sia quella della loro costruzione sia quella della loro messa in opera – ed abbiamo stabilito che il materiale utilizzato per la costruzione non è stato fabbricato ad hoc, ma sono stati riutilizzati mattoni recuperati da edifici di epoca romana, in modo particolare dall’arena.

Anche lo studio che abbiamo condotto sulla Certosa di Pavia ha evidenziato la presenza di materiale di riuso, proveniente probabilmente da una struttura precedente non documentata dagli archivi storici; sapevamo che il muro era del XV secolo invece i mattoni sono risultati essere del XII: evidentemente prima erano in un’altra struttura e poi sono stati riutilizzati. 

 

Si parla anche di una vostra collaborazione con l’Arma dei Carabinieri ….

Sì, in particolare col Nucleo per la Tutela del Patrimonio Storico-artistico, nell’ambito di campagne di autenticazione di materiale sottoposto a sequestro, che hanno identificato nel 75% dei casi opere autentiche illecitamente sottratte per essere rivendute nel mercato sommerso.

 

(Mario Gargantini)