Fino a qualche tempo fa, in Italia eravamo abituati alle dichiarazioni di “stato di calamità”, cioè al fatto che lo Stato si facesse carico dei costi relativi ai danni procurati da un “evento eccezionale”. Per “evento eccezionale” si devono intendere terremoti, alluvioni, frane, trombe d’aria, valanghe ecc.. genericamente definiti. Ora però, soprattutto per effetto anche della crisi, questo tipo di intervento non è più pensabile dal punto di vista economico; lo Stato non se lo può più permettere.
Ci sono tuttavia delle possibilità di minimizzare i costi sociali di molte calamità, agendo in modo ordinato e preventivo e chiamando in causa lo stesso sistema assicurativo.
«Partiamo dal problema più generale – dice a ilsussidiario.net il professor Franco Guzzetti, del Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito del Politecnico di Milano – Bisogna considerare che gli eventi non sono tutti equivalenti. In particolare il terremoto colpisce in modo sostanzialmente relazionato con la distanza dall’epicentro: due case con stesse caratteristiche strutturali una vicina all’altra subiscono gli stessi effetti. Invece l’alluvione non ha le stesse regole: a pari evento (cioè a pari precipitazione) bastano pochi metri di distanza di fabbricati equivalenti, basta la presenza di un muretto divisorio anche non troppo alto, per avere effetti (danni) completamente diversi».
In generale quando si parla di evento eccezionale bisogna quindi differenziare la pericolosità (o l’area di pericolosità) dal rischio ( o l’area di rischio). «La pericolosità dipende dall’evento e dalle caratteristiche del territorio: una grande piena produce un’onda di una certa altezza e con una certa velocità se esonda in un certo punto del fiume. Il rischio dipende dall’uso del territorio: la citata onda di piena non produce danni se non ci sono abitazioni e se i territori che allaga sono senza coltivazioni di valore».
Lo Stato ha avviato tramite le Autorità di Bacino (AdB) un’attività per mappare le zone di pericolosità e le zone di rischio su tutto il reticolo principale nazionale. «Questa attività – commenta Guzzetti – va un po’ a rilento, come spesso in Italia; sta progressivamente diventando omogenea ma ad oggi è un dato geografico difficilmente disponibile: ci sono notevoli diversità fra una AdB e l’altra (ce ne sono 36 in Italia, ndr) e di fatto è richiesto un enorme lavoro per utilizzare dei dati che, per loro natura, dovrebbero essere disponibili e gratuiti».
Il team del Politecnico ha controllato un buon numero di casi di alluvioni verificatesi in questo strano e anomalo 2014. Si è trovato che in molti casi i danni non hanno interessato le aree di pericolosità (o di rischio): «ad esempio, l’origine dell’alluvione di Senigallia del maggio scorso non è legata a una piena ma alla rottura di un argine. Quelle che vengono indicate come aree di pericolosità si riferiscono al solo effetto di piena e non possono, ovviamente, contemplare le rotture degli argini, un’eventualità che non deve capitare».
Si capisce quindi come sia complesso monitorare, anche sulla base di previsioni meteorologiche il più possibile attente e precise, gli eventuali danni causati da un evento anomalo; e anche su questo termine ci sarebbe qualcosa da dire: «è facile che i giornali classifichino anomalo un evento che non si verifica da dieci anni e questo non è corretto perché il concetto di anomalo su eventi di questo tipo deve rimandare a parecchie decine di anni».
Ma cosa c’entra in tutto questo il tema delle assicurazioni? «Al di là di quello che fa o non fa lo Stato per intervenire sul territorio, le assicurazioni potrebbero costituire un volano reale per invertire l’attuale tendenza, sovvenzionando opere di difesa che riducano il rischio (visto che sulla riduzione del pericolo è molto più difficile agire)». L’idea, sembra di capire, è che un’assicurazione investa certe somme, anche considerevoli, sugli edifici dei suoi assicurati in zone di rischio (o anche fuori da tali zone) in modo che al capitare di un evento non si verifichi il corrispondente danno. A conti fatti, eviterebbe di spendere somme comparabili in risarcimenti; senza contare il risparmio per la collettività in termini di disagi, di danni e di vite umane.
Gli esempi che vengono dall’estero, al solito, sono illuminanti. «Da noi tutti si aspettiamo che sia lo Stato, d’ufficio, a pagare i danni di una alluvione. In molti Paesi invece, dove lo Stato da anni non interviene come in Italia, il sistema assicurativo si è evoluto e propone, persegue, facilita la messa in campo di strumenti di difesa passiva per gli eventi alluvionali che, come si diceva, hanno effetti molto differenti anche in ambiti limitati. Ad esempio esistono dei veri e propri muri di gomma da porre attorno a un edificio in campagna che, quando arriva l’onda di piena, si auto-riempiono di acqua e formano una diga che crea un’isola asciutta all’interno di un territorio allagato. Questo andrebbe benissimo per quelle aree come il padovano e il parmense dove i fiumi hanno un letto più alto del piano di campagna limitrofo (in genere le aree bonificate) e quando si rompe un argine si allagano chilometri quadrati con acqua fino a un’altezza di qualche decina di centimetri».
Al Politecnico stanno facendo delle simulazioni su dati di specifici eventi e sui relativi rimborsi effettuati per dimostrare come all’assicurazione anziché rimborsare il danno sarebbe convenuto investire gli stessi soldi (e spesso di meno) per “pagare” ai privati il sistema di difesa. «Ovviamente con l’obbligo del privato di attivarlo quando necessario. Qui possiamo vedere un nuovo concetto di allarme, che dovrebbe essere dato non per sapere che ci saranno grandi piogge ma per attivare una misura di difesa. Adesso invece al massimo ci dicono “salite sui tetti così non annegate”».
Questa strada, osserva il professor Guzzetti, oltre a far guadagnare l’assicurazione, perché spende meno a fornire le misure di difesa che a pagare i danni, «genera un costo sociale nettamente inferiore perché attiva la popolazione (quindi è educativo) e impedisce le situazioni calamitose che al di là del danno hanno effetti umani pesanti».
Si pensa ad esempio quanto poco possa costare fornire apposite paratie (tipo quelle per l’acqua alta di Venezia) da installare in caso di esondazione rispetto ai danni che la stessa esondazione provocherà. Anche il costo dell’assicurazione sarebbe inferiore e si instaurerebbe un meccanismo per cui ognuno sa che se non mette la paratia fornita dall’assicurazione non avrà diritto agli eventuali rimborsi per danno.
Non si tratta di idee tanto peregrine. Un po’ tutto il sistema assicurativo si sta svegliando su questi argomenti. «Un altro esempio è quello del verde: in certi Comuni le assicurazioni coprono l’amministrazione pubblica dal rischio di caduta alberi (cioè rimborsano se un albero cade su di una auto) e magari assicurano anche l’automobilista colpito e quindi pagano in ogni caso quando capita un evento. All’assicurazione converrebbe molto di più abbassare entrambi i premi e quindi incassare di meno con però la certezza che, a pari fenomeno, il rischio di caduta alberi sia eliminato attivando, ad esempio, apposite operazioni di monitoraggio sulle caratteristiche meccaniche di ciascun albero».
Chissà se soluzioni del genere riusciranno a farsi strada, superando le radicate abitudini “all’italiana” a trovare scappatoie e ad aggirare i problemi!