Nel televisore scorrono le immagini di fiumi di fango che invadono i nostri posti liguri. Il commentatore sta accusando chi rovescia rifiuti nei letti dei torrenti. La nonna rabbrividisce immaginandosi al posto delle persone più colpite: «Povera gente. E pensare che a quello gli volevano fare la multa perché tagliava le canne nel fiume. E dai boschi vien giù di tutto»



I boschi: ma come mai non ne sta parlando quasi nessuno? Eppure è una cosa, sotto questa pioggia, di un’evidenza solare e ben conosciuta dagli addetti ai lavori, ma che proprio non “buca” nel circuito politico-mediatico. 

Qualche dato:

La Liguria è la regione con la maggior superficie boscata d’Italia: circa 375.000 ettari (più del 70% della superficie totale), di cui più della metà con una pendenza superiore al 40%. La Liguria è anche una delle regioni più piovose. Non è una novità: Dickens, per dire, descrive un violentissimo nubifragio durante il suo soggiorno ligure, a metà dell’ottocento, ma gli annali abbondano di notizie analoghe.



Fino a 60 o 70 anni fa, i boschi rappresentavano una risorsa preziosa per gli abitanti, che li custodivano con estrema cura, sulla scorta di un patrimonio di esperienza diffusa stratificatosi nel tempo. Ancora durante il periodo bellico, offrirono rifugio e sostentamento agli sfollati in fuga dalla costa. 

Nel secondo dopoguerra, invece, per la prima volta da secoli si verificò un massiccio abbandono del bosco. Un po’ come ovunque in Italia, il desiderio di una vita più attraente fu canalizzato da scelte politiche verso uno sviluppo industriale a “fondovalle”; il bosco rappresentava fisicamente una tradizione passata da strapparsi di dosso quasi con furia. Svuotandosi di vita, i boschi persero anche attrattiva economica, e tutti i prodotti che fino a poco prima ne venivano ricavati divennero perlopiù appannaggio residuale di vecchi restati indietro. Il regime fortemente vincolistico inaugurato dall’epoca fascista diventava d’altro canto sempre più stringente, svuotando progressivamente i titoli di proprietà di significato e, correlativamente, di responsabilità.
I proprietari privati (complessivamente possessori di quasi 9/10 della superficie boscata) smisero di fare manutenzione, come pure la legge avrebbe previsto, e, d’altra parte, le autorità amministrative non li sanzionarono per questo, a causa della sproporzione tra l’onerosità degli interventi necessari e l’utile ricavabile dagli appezzamenti di proprietà.



Inoltre, mentre veniva dispersa la tradizionale competenza in tema di cura del bosco, nemmeno si rimaneva al passo nel trarre profitto dall’innovazione tecnologica, come pure in altre parti del mondo è avvenuto.

Questo per quel che riguarda lo storico abbandono del bosco. 

Ma veniamo ora a qualcosa che non siamo abituati a sentirci dire: alle colpe che una mitologia ecologista ha avuto nell’incrementare una situazione già così compromessa. 

Ispirando, per esempio, una massa di regolamenti intricata quanto quella del sottobosco inselvatichito, che impedisce di lasciare aperte le strade carraie utilizzate per l’esbosco ciclico, e impone di ripristinare le condizioni precedenti ai lavori, al fine di evitare che con il tempo nel profondo delle selve si “consumi suolo” a fini edilizi. Nell’epoca dei satelliti, quando sarebbe semplicissimo monitorare perfettamente dall’alto la situazione! La conseguenza di queste prescrizioni è chiaramente quella di alzare in modo assurdo il costo dell’operazione di esbosco, allontanando l’interesse degli imprenditori, specialmente di quelli più piccoli, e per di più di non poter contare né sull’effetto tagliafuoco di queste piste, né sulla possibilità di raggiungere rapidamente anche da terra le vicinanze di alluvioni o incendi (acqua e fuoco si alternano nella devastazione).  Altre norme impongono invece di portare via a spalla la potatura degli alberi malati (ah, il ritorno pretecnologico alla terra!) in particolari aree “protette”. Con la conseguenza che, pur in momenti di penuria di lavoro, è capitato che più l’area fosse protetta meno cura di fatto ricevesse. 
O ancora, in un crescendo di cecità ideologica, viene ordinato di lasciare a terra il materiale di risulta delle potature terapeutiche, perché non se ne possa trarre alcun profitto ulteriore, e si possa realizzare anche da noi quell’ideale di restituzione al ciclo della natura che in modo così cool viene predicato a proposito della Foresta Amazzonica.  

Ma i nostri sono boschi fortemente antropizzati, boschi domestici, per così dire! Se hanno dei proprietari è perché a suo tempo qualcuno per ricavarne un utile se ne prendeva cura. Boschi che, di massima, vanno curati: periodicamente ringiovaniti, tenuti puliti, governati nelle pendenze e nei deflussi dell’acqua, ecc.

Invece:

“Nonostante il 95% delle foreste liguri siano definite potenzialmente disponibili alla raccolta del legno, sono in media di età avanzata e spesso hanno superato il turno consuetudinario. Il 15% del territorio boscato ligure, è soggetto a dissesti a causa dell’abbandono delle aree rurali e di conseguenza della mancanza di un adeguato presidio territoriale in grado di garantire la gestione forestale, la regimazione idrica, oltre che il mantenimento di un corretto deflusso superficiale delle acque meteoriche. L’elevata presenza di necromassa (alberi morti in piedi o atterrati) in Liguria raggiunge, infatti, i livelli più alti d’Italia e testimonia l’assenza di una gestione attiva dei boschi.” (CONAF, Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali). 

“Alcuni corsi dei fiumi a causa dell’eccessivo materiale sedimentario accumulato, infatti, hanno modificato il loro corso, fenomeno favorito anche dalla presenza incontrollata di vegetazione sia viva che morta” (S. Diamanti, presidente della Federazione dei Dottori Agronomi e dei Dottori della Liguria). 

La principale criticità “è rappresentata dalle piante invecchiate, che cascando a valle (“effetto domino”), formano cumuli lungo i corsi d’acqua che costituiscono un ostacolo al deflusso delle acque. Al verificarsi di eventi metereologici di entità straordinaria, tali cumuli possono comportare vere e proprie ostruzioni all’alveo dei rivoli che, oltre a deviare il percorso originario di questi ultimi (effetto diga), rilasciano la cosiddetta “ondata armata” (acqua con trasporto solido di piante e flottanti vari)” (. Consiglieri, presidente dell’ordine dei dottori agronomi e dei dottori forestali di Genova e Savona).

Le precedenti dichiarazioni sono tratte da un documento del 15 novembre 2011, dopo le alluvioni di quell’anno. mai è successo di nuovo? 

Per  le stesse ragioni per cui non se ne è parlato e, sostanzialmente, non se ne parla nemmeno ora. 

La politica: non c’è dividendo politico nel tema del bosco, né per chi è al governo – meglio restare sul terreno ben conosciuto delle grandi opere da varare in muscolare risposta ad ogni emergenza – né per chi è all’opposizione – per la quale parte subito il riflesso meccanico della ricerca dei colpevoli da impalare (l’ultimo grido sono i condoni). Il dramma dei boschi non è telegenico, e, all’ingrosso, la politica proprio non è in grado di vederlo. Non il “dissesto idrogeologico”, formuletta  che ha esaurito la sua capacità di significato passando da una dichiarazione all’altra come un contagio, e che proprio perciò nei discorsi dei politici non manca mai, ma quel problema preciso descritto sopra dagli agronomi: la politica non sa che farsene.

Poi la Pubblica Amministrazione: un mastodonte ben poco capace di rivolgersi positivamente alle necessità del bosco. Non perché tra il personale addetto non ci siano persone anche molto competenti e financo volonterose, ma la superficie boscata è enorme e, appunto, piuttosto selvatica, ed eccede la pretesa di poterla governare per via amministrativa, secondo lo schema comando-sanzione. Negli anni si sono stratificati, come in molti altri campi, provvedimenti di ogni ordine e grado dando origine a quel groviglio regolamentare che dicevamo, più inestricabile del bosco profondo. La mano pubblica ha progressivamente accentrato e avocato a sé la maggior parte delle decisioni riguardanti il bosco, marginalizzando la presenza dei privati, ma proprio per questo non possono poi esserci decisori in grado di caricarsi di responsabilità così ampie e pesanti, per cui il processo decisionale ed esecutivo si fraziona  e si diluisce, e pazienza se poi tutto si paralizza senza scampo. Anzi: dopo ogni emergenza, mentre si inaspriscono i regimi e si aumenta il livello dei requisiti pretesi, le autorità tra cui scindere la responsabilità si moltiplicano in ampiezza di attribuzione e profondità gerarchica. Chi decide è sempre più lontano da coloro sui quali la decisione ricade. Nella presunzione ortopedica di riformare gli amministrati, in realtà li si induce a ritirarsi sempre di più, oppure li si spinge verso comportamenti più o meno illegali. Così, persino interventi semplicissimi come tagliare le canne, consuetudine che mentre sopperiva materiale necessario alla coltivazione dell’orto provvedeva alla pulizia del letto del fiume, diventa un comportamento punibile, e tra la gente si fa strada la convinzione che per ripulire da piante e relitti il letto del fiume sotto casa propria (come si era sempre fatto) sia necessaria una autorizzazione, e rinuncia.

Opinion maker e media: le vestali della coscienza collettiva hanno la loro parte di colpa. Prendiamo una recente lodevole iniziativa da parte della Regione Liguria (assessore all’agricoltura Giovanni Barbagallo), quella di affidare alcuni boschi ai privati: 7 mila ettari di querceti, castagneti, faggeti, abetaie, e pini marittimi, finora abbandonati a sé stessi, gratuitamente a chi, oltre a sfruttarne le risorse, si obblighi a fare manutenzione. Il WWF  l’ha condannata  in quanto “privatizzazione ai fini di profitto di un patrimonio affidato alla mano pubblica”. Pubblico e privato “non possono coesistere visto che il primo tutela la biodiversità, i beni naturali, la difesa del suolo, la fruizione controllata da parte della collettività mentre il secondo è animato solo da esigenze di profitto”. Ecco la fotografia perfetta dell’atteggiamento ideologico “a monte” di tante conseguenze nefaste. In realtà, poi, la mano pubblica dovrebbe intervenire dove la responsabilità dei privati direttamente non arriva (sussidiarietà), e non richiedere l’intervento dei privati dove non arriva lei (e comunque, perché il WWF non si candida a prendere concretamente in gestione qualcuna di quelle aree, seguendo l’esempio di alcuni grandi associazioni ambientalistiche americane, invece di pretendere di imporre a tutti la propria visione delle cose?). 

Opinione pubblica: sempre più ingabbiata nel quadrante compreso tra le due coordinate infernali: il risentimento astioso (le colpe della cementificazione, della corruzione….) e la mitologia (il “verde”, la “messa in sicurezza” ….), come se all’esproprio della facoltà sociale di fare e di essere personalmente responsabili corrispondesse il diritto di non avere più nessun problema.  Con il risultato di spingere politici ed amministratori verso priorità e scelte in gran parte inutili quando non dannose. E il cerchio, purtroppo, si chiude.

Poi certamente, non sono mancati comportamenti riprovevoli da parte di amministratori e cittadini, ma finché le cose non verranno guardate nella giusta prospettiva, andremo sempre peggio, salvo inventarci colpevoli  di comodo, come il riscaldamento climatico, che ci sarà pure, ma su un territorio vissuto e vitale non porterebbe poi a eccessivi sconquassi. Invece dell’uragano repressivo invocato su ogni chat e in ogni bar, sarebbe magari più utile capire perché si sia costruito in un certo modo, compreso chi ha costruito la propriaabitazione: sono cambiate le situazioni? in seguito a cosa, precisamente? La sacrosanta aspirazione a costruirsi una casa migliore come mai non ha trovato una collocazione più adeguata? Indagini da fare laicamente, senza avere già le risposte in tasca. Di qui allora si potrebbe ripartire per gestire meglio la situazione, isolando molto più facilmente i comportamenti patologici.

No alle “guerre sante”, sì a una lettura “laica” delle cose. 

Per esempio prendendo atto del fatto che sulla costa ligure incombono due realtà immense, il mare, innanzi tutto, ma dall’altro lato il bosco. I nostri antenati che qui vissero erano abituati a correre dei rischi, e costruirono i loro insediamenti come costruivano le loro barche, cercando di ridurli, senza la pretesa di eliminarli. Ci riuscirono anche bene, sperimentando le migliori soluzioni disponibili. Dovremmo riprendere a fare altrettanto.

Azzardiamo qualche suggerimento:

Concentrarsi su alcune opere difensive, magari poche per volta ma eseguite bene in tempi rapidi. Procedere ad un profondo ripensamento complessivo regole amministrative (in difetto del quale i singoli provvedimenti anche validi, sono destinati a perdere gran parte dell’efficacia), dove veramente “less is more”.  Ma soprattutto favorire la ripresa di contatto con il bosco, anche con il riformarsi di un interesse economico, cioè compatibile con la quotidianità delle persone . Per esempio, con una rete di centrali a biomasse forestali (con incentivi miranti non tanto a premiare la produzione di energia rinnovabile quanto a sostenere i costi per ricominciare da capo una gestione del bosco),relativamente piccole, per non richiedere grandi spostamenti di legname in un regime di filiera corta, al fine di contribuire a far fronte ad una buona parte del costo di risanamento del bosco. Oppure, con la ripresa di estrazione e la lavorazione di legname da carpenteria o falegnameria, o con la riproposizione in chiave moderna di prodotti alimentari tipici… 

 

Correlativamente, ripristinare la responsabilità dei proprietari alla custodia delle aree in loro possesso.

Comprendere che non può esistere una fonte unica di soluzioni positive: la realtà del bosco è troppo complessa ed eccedente qualunque attore singolo. I fiumi, d’altro canto, hanno sempre avuto la particolarità di trasportare i problemi senza riguardo a confini amministrativi o di proprietà: forse recuperare vere magistrature delle acque, ultimamenter esponsabili per il governo ed il controllo di ogni bacino idrografico potrebbe prevenire molti disastri. 

I nostri boschi hanno bisogno degli uomini, e gli uomini hanno bisogno dei boschi, in una ritrovata custodia reciproca.