I gatti, si sa, sono animali amatissimi dagli esseri umani. Basta fare un giro sui social network per vedere migliaia di foto del simpatico felino tra le braccia di amorevoli padroni, tenere immagini di accoglienza domestica. Eppure, secondo le ricerche fatte dallo studioso americano Razib Khan dell’università della California e pubblicate dal New York Times, i gatti, a differenza dei cani, non sono animali domestici. Sopportano a malapena l’essere umano solo perché assicura loro pasti completi tutti i giorni. Delusi? Sempre secondo lo studioso una prova di tutto questo sta anche nel fatto che i primi resti fossili di cani ambientati in comunità familiari, dunque domestici, risalgono a oltre 30mila anni fa. Il gatto invece arriva nelle famiglie solo 9500 anni fa. C’è poi un discorso legato al genoma, dice Khan: i gatti domestici rispetto a quelli selvatici hanno il cranio più piccolo e alcune differenze nei geni, il gatto domestico avrebbe sviluppato un cervello differente che lo rende adattabile alla vita umana: “Una volta che hanno iniziato a vivere tra di noi, i gatti non hanno più avuto bisogno di pensare a come restare in vita, né hanno più avuto bisogno di grandi mascelle dopo che abbiamo iniziato a nutrirli con gli avanzi delle nostre cucine. Da qui i loro crani più piccoli” dice lo studioso. I gatti infatti si sarebbero avvicinati all’uomo nel passaggio dal nomadismo alla sedentarietà del neolitico, quando le scorte di cereali fatte dagli uomini hanno portato i topi e quindi i gatti a intrufolarsi di conseguenza nell’ambiente umano.