Secondo uno studio canadese condotto su 90mila donne tra i 40 e i 59 anni (durato 25 anni e pubblicato sul British Medical Journal) lo screening mammografico – la comune mammografia – non salverebbe la vita alle donne. Anthony Miller, responsabile e autore della ricerca, sostiene che “almeno per una donna su la diagnosi di tumore, che risulta dalla mammografia, è sbagliata”. Da quanto emerso, l’esame in questione non ridurrebbe infatti, come ci si attendeva, la mortalità per tumore al seno e anzi, produrrebbe una sovrastima dei casi (con tanto di cure non necessarie e costi evitabili). La questione e la diatriba sull’utilità o meno della mammografia non è certo nuova: la Svizzera, per esempio, ha abbandonato i programmi di promozione dello screening. Pierfranco Conte, professore all’Università di Padova e Direttore dell’Oncologia 2 dell’Istituto Oncologico Veneto Irccs commenta così la notizia: “Una cosa è certa: con gli screening sono aumentate enormemente le diagnosi di carcinoma mammario cosiddetto in situ; un tumore che non dà metastasi, ma che viene però trattato con la chirurgia e la radioterapia”. Gli esperti però ammoniscono, invitando a non abbandonare la prevenzione. Queste le parole di Francesco Di Costanzo, direttore dell’Oncologia nell’Azienda ospedaliera-universitaria Careggi di Firenze: “I canadesi hanno scelto la sopravvivenza come parametro per valutare l’efficacia dello screening, ma probabilmente non è il migliore, soprattutto quando si misura su un lungo arco di tempo. Nel frattempo, infatti, possono intervenire altre malattie che possono portare a morte e confondono i dati. E poi bisogna considerare le macchine: un mammografo di 25 anni fa non è come uno di oggi: il potere diagnostico di questi strumenti è migliorato moltissimo”. I risultati sono comunque da tenere in grande considerazione, soprattutto per quanto riguarda il ripensamento dei modelli di screening stesso, che andrebbero personalizzati e modellati sul singolo paziente.



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