Quello dei 450 anni della nascita di Galileo sembrerebbe il tipico anniversario su cui è impossibile trovare qualcosa da dire che non sia scontato in partenza. In realtà, forse mai come oggi riflettere sul metodo e sulla natura della conoscenza scientifica è tutt’altro che scontato: perché se è vero che la nostra vita materiale è ormai compenetrata e plasmata in ogni suo aspetto dalla scienza, lo stesso non si può dire della nostra cultura, a cominciare dalla scarsa coscienza che essa dimostra di avere del primo aspetto.
Ciò è particolarmente evidente in Italia, dove da decenni esiste una diffusa diffidenza nei confronti della scienza; che si esprime a livello sociale in una crescente tendenza a dubitare del parere degli esperti – spesso in favore di teorie pseudo-scientifiche, oggi dilaganti soprattutto “grazie” a Internet – e a livello politico in una continua sottovalutazione dell’importanza della ricerca scientifica, che da qualche anno in qua si esprime soprattutto nell’assurda denigrazione delle nostre Università (che invece sono ancora tra le migliori al mondo, e addirittura le prime in assoluto per rapporto tra risorse disponibili e risultati ottenuti).
Ma il problema sta ormai assumendo una dimensione mondiale, soprattutto nella forma di una tendenza sempre più marcata a penalizzare, in nome dell’impiego “utile” dei soldi dei contribuenti, la ricerca umanistica rispetto a quella scientifica e, nell’ambito di quest’ultima, la ricerca di base rispetto a quella applicata, cosa che sta accadendo perfino negli Stati Uniti, dove da qualche mese è in atto una violenta polemica proprio per il tentativo dell’amministrazione Obama di imporre una riforma della scuola ispirata ai suddetti criteri.
Ora, ciò potrebbe anche sembrare ragionevole, soprattutto in tempi di crisi, se non fosse per un piccolo particolare: che da sempre la scienza non progredisce grazie all’utilitarismo, ma alla gratuità. Quale gesto più gratuito si potrebbe infatti immaginare di quello di Galileo che lavora per mesi a migliorare uno strumento, il cannocchiale, già esistente e fin lì usato (appunto) esclusivamente per scopi pratici e poi, una volta creatane una versione molto più potente, invece di precipitarsi a venderlo al Doge di Venezia lo alza verso il cielo per vedere come sono fatte la Luna e le stelle?
Poi, certo, Galileo (che fu sempre un ottimo amministratore di se stesso) ha anche venduto il cannocchiale al Doge e agli altri potenti dell’epoca. Ma dopo: la molla iniziale è stato il desiderio di essere il «primo osservatore di cosa così ammiranda, e tenuta a tutti i secoli occulta», come scrisse al Segretario di Stato fiorentino Belisario Vinta al termine delle sue osservazioni. E così è stato anche dopo, sempre: è impressionante vedere come tutti i più grandi progressi tecnologici sono venuti da scoperte scientifiche che a prima vista apparivano assolutamente inutili e che sono nate solo dal desiderio disinteressato di conoscenza.
Ma non è tutto. Benché Galileo sia passato alla storia (giustamente) soprattutto come padre della scienza moderna, egli fu un vero uomo del Rinascimento a tutto tondo, con una grande vastità di interessi e una profonda conoscenza della cultura del suo tempo; come dimostrano non solo le sue discussioni con i filosofi e i teologi, ma anche certi suoi acuti giudizi in campo letterario e musicale, la sua vasta rete di amicizie con molti artisti e il suo personale talento di pittore, che lo aiutò molto nella realizzazione delle mappe della Luna.
Di nuovo, ciò non rappresenta un caso isolato, ma una caratteristica di quasi tutti i grandi scienziati. E, di nuovo, ciò non è affatto casuale. Infatti, proprio perché le grandi scoperte sono sempre inattese e sorprendenti, esse non possono venire programmate a tavolino: di conseguenza, è molto più probabile che l’idea giusta venga in mente a chi, pur avendo certo una profonda conoscenza tecnica del proprio campo di ricerca (che oggi più che mai è indispensabile), ha però anche una mente elastica e aperta a molteplici sollecitazioni. Quindi non solo la cultura umanistica non va artificiosamente contrapposta alla scienza, ma anzi esiste tra loro un feed-back virtuoso, giacché ciascuna delle due aiuta l’altra a non chiudersi in se stessa e ad allargare continuamente i propri orizzonti.
Ancora una volta, ciò era ben chiaro a Galileo, il quale ha sempre specificato chiaramente, come scrisse nel famosissimo passo delle Macchie solari, che il metodo sperimentale da lui fondato vale solo per studiare «alcune affezioni» delle «sustanze naturali» e che le altre forme della cultura, a cominciare dalla teologia e dall’arte, pur seguendo metodi diversi (giustamente, perché diversi sono i loro oggetti), sono anch’esse autentiche forme diconoscenza. Riscoprire questa fondamentale lezione galileiana è dunque particolarmente importante; anzi, oserei dire autenticamente rivoluzionario, proprio ai giorni nostri, in cui l’auto-dissoluzione del razionalismo moderno (che non ha nulla a che vedere con la scienza: dato che pretende che il metodo della conoscenza sia unico; e che anche storicamente è nato in tutt’altro ambito) ha prodotto un relativismo nichilista che ha ormai pervaso quasi completamente la nostra società.
In effetti, a ben pensarci, gli unici due ambiti in cui oggi viene ancora affermata l’importanza della ricerca disinteressata della verità, nonché la fiducia nella capacità della ragione umana di raggiungerla, sono da un lato la comunità scientifica e dall’altro la Chiesa cattolica. Ciò potrà forse apparire strano a chi è abituato ai luoghi comuni circa “l’inevitabile opposizione tra scienza e fede”, spesso basati proprio su una lettura fuorviante della vicenda di Galileo: ma è anche un dato di fatto, che dovrebbe far riflettere. Comunque, di certo ciò non sarebbe sembrato strano a Galileo, «sincero credente» (Giovanni Paolo II), che è sempre stato «convinto che Dio ci ha donato due libri: quello della Sacra Scrittura e quello della natura» (Benedetto XVI).